Come potete immaginare e sapete senz’altro se leggete Dissapore, quella dei pub è una delle categorie più colpite dall’ultimo Dpcm, ma puntando la lente su Venezia, dovete provare a immedesimarvi in uno dei tanti bacari, esercizi che oggi si identificano con la città stessa, rappresentando i suoi riti socio-gastronomici più noti (assai lontani dall’ora di pranzo).
Anche loro, così come le birrerie, devono scegliere tra chiudere del tutto, rischiando di perire, o sopravvivere, adattandosi ai nuovi orari di apertura (e chiusura, alle 18) e quindi reinventarsi. Tradizionalmente le 18 segnano l’orario di inizio di un appuntamento pressoché quotidiano, una convivialità errante e liquida, simbolo stesso della città e del modo in cui è vissuta da cittadini e turisti.
Ecco perché, a Venezia, la chiusura imposta alle 18 ha stravolto ancor più il volto cittadino, rendendo spettrali luoghi fino a pochi giorni fa vivi. Fondamenta degli Ormesini, con il lungo tratto del Rio della Misericordia a fare da scenografia suggestiva, è uno di questi, forse il più rappresentativo: qui i bacari si susseguono (e si moltiplicano pure troppo, ne giro di pochi anni si è arrivati a contarne una ventina in 50 metri) accogliendo un’umanità composita. Per capire quali siano state le conseguenze delle nuove misure abbiamo intervistato il titolare del bacaro più noto, il Timon, riconoscibilissimo per la barca posizionata in canale, ormai parte del locale quanto tavoli e sedie. Da sempre aperto dalle 18 in poi, il Timon ha adottato nuovi orari trasformandosi in un bacaro diurno, una sorta di ossimoro.
“Le nuove disposizioni creano un notevole disagio”, spiega Alben, reduce da una protesta silenziosa che lo ha visto, a fianco di altri gestori di locali in zona, manifestare tenendo aperto il suo bacaro per mezz’ora oltre l’orario imposto, senza clienti ed in modo pacifico, “disapproviamo il modo unilaterale in cui sono state prese e soprattutto non c’è un messaggio chiaro: così non è né chiuso né aperto.
A questo punto sarebbe meglio chiudere del tutto, perché ci sono costi che non si riescono a recuperare. Siamo stati i primi ad adattarci alle nuove disposizioni, garantendo il distanziamento, sanificando e limitando gli ingressi. A cosa è servito? Ho sostenuto costi per rispettare le leggi, ma da parte del governo non si vede alcun segnale”.
Si lavora in perdita, quindi. “Personalmente sono uno dei pochi che ha sempre lavorato, ho 12 dipendenti e sono riuscito a pagare tutti. Mi considero fortunato perché il lavoro c’è stato, perché la nostra clientela è gente del posto, perché non mi sono mai abbandonato completamente al turismo. Credo che il turista che trova un luogo in cui c’è clientela locale sia più invogliato a vivere un’esperienza autentica. Ecco perché questa sarebbe una buona occasione per ripensare al turismo”.
Un’analisi condivisa da molti, che aveva iniziato a farsi strada nelle prime settimane di lockdown, e che poi – complice la tregua estiva e la necessità di recuperare in corsa tempi e guadagni mancati – sembra essersi sfilacciata ed essere già stata dimenticata.
“Le osterie veneziane fanno da termometro al benessere della città, sono un patrimonio umano da preservare: ci dev’essere il turismo, certo, ma ci vuole un turismo che capisca la città e che la apprezzi. E ci devono essere i residenti. Insomma, bisogna gestire la città con testa, altrimenti si va a rotoli”.
Trasformare un bacaro in un locale da pause pranzo non è così immediato e automatico e si perde buona parte della natura e dello spirito del luogo stesso. Oltre che buona parte della clientela.
“Abbiamo deciso di aprire a pranzo, dalle 11 alle 18, con le nostre proposte (ai cicchetti al banco, il bacaro affianca taglieri misti e piatti di carne, n.d.r.), ma indubbiamente la clientela è cambiata: prima veniva qui chi usciva dal lavoro, ora è diverso”.
“I ristori promessi non risolvono certo le difficoltà: la prima cassa integrazione annunciata lo scorso marzo è arrivata a giugno”, precisa il titolare del Timon, che conclude con un mesto “bisogna tenere i nervi saldi ed essere come l’acqua, adeguarsi”.
Che, detto nella città che da un anno cerca di risollevarsi dall’acqua alta devastante del novembre 2019 e che quest’anno arriva a vedere in funzione il salvifico Mose per la prima volta, suona come una beffa.