Il richiamo della televisione, per me, è una certezza: mettimi un Capra e cavoli sul piccolo schermo (nella trasmissione di Alessandro Borghese “Quattro ristoranti“) e stai certo che, prima o poi, ci vorrò andare.
E’ il richiamo del pop, ma anche quella curiosità che ti prende quando intuisci che quel posto potrebbe avere qualcosa di interessante.
Eccomi, quindi, in una delle serate più fredde della stagione, al quartiere Isola di Milano, che oltre ai grattacieli ha anche qualcosa d’altro.
Quello che mi aveva intrigato di questo Capra e cavoli (ma forse sarebbe stato più filologicamente corretto “Carpa e cavoli” o anche “Capra e calcoli”) è che, pur con una base di cucina vegetariana e in alcuni casi vegana, qui si mangia anche pesce.
La carne no, non diciamo eresie, ma il pesce è ammesso. Una sorta di inversione dei poli: un ristorante per mangiatori coscienziosi, ma con un piccolo strappo alla regola per quelli che al pesce concedono ancora qualcosa.
Insomma, per capirci, un posto dove i tanti amici coi quali abbiamo condiviso ossa di costine alle grigliate in giardino, e che oggi hanno fatto il passo “verde” potrebbero portare a cena anche noi gente semplice che mangia ancora di tutto.
Quindi due onnivori in gita, si diceva, si presentano da Capra e Cavoli perché l’hanno visto in tv.
Quattro scalini e sei arrivato in quello che vorrebbe ricordare un giardino indoor, con piante, dondoli, tavoli di pietra, ammennicoli vari che mescolano lo stile provenzale (che ormai i ristoranti vegetariani di nuova generazione dovrebbero aver imparato a svecchiare almeno un po’) con una cucina a vista, un soppalchino e degli ombrelloni.
Insomma, un po’ carico, ma tutto sommato piacevole.
C’è una cosa a cui non riesco a dare un senso: i cartonati dei due chef, messi in bella mostra nel locale, forse a ricordare le facce di quelli che stanno cucinando per voi.
Non ho capito bene, ancora mi sto facendo la domanda ma nemmeno il tempo di rifletterci e ci assegnano il tavolo e poi ci si perde per una mezzora ad osservare il menu.
Somiglia un po’ ai menu dei ristoranti giapponesi in Italia, di quelli che ti danno un aiutino con la foto ma qui, a volte, non c’è scritto il contenuto del piatto.
In compenso, si possono leggere storie e suggestioni sulle ricette anche molto carine, solo che se andiamo avanti così arrivo ai secondi tra una settimana, e io ho fame ora.
La chef, ma a volte anche lo chef (lei tutta vestita di bianco è lo yin, lui naturalmente lo yang e, udite udite, per fare pendant si è trovato anche i guanti dark monouso da cucina!) vengono in aiuto del menu criptico.
Come antipasto scegliamo di affidarci ai Falsi d’autore, un mix di mignon composto da schiacciatina di patate, timo, limone con formaggio di cocco affumicato alla betulla e olio con cenere di buccia di cipolla (sì, tutto questo in solo uno degli assaggi), poi il Magnum veg con patate, verdure e mandorle e una maionese vegana, poi ancora tarte tatin di risotto alla milanese con chips di topinambur, una cipolla di Tropea caramellata con crema di patate e infine un pomodorino alla scorza d’arancia con crumble di panpanco, semi di papavero e pasta di pistacchio in purezza.
Non ci crederete ma sta tutto in un antipasto: piuttosto cervellotico, in effetti.
Manca la supercazzola, aggiungo io, ma di certo se ne apprezza la mistura tra prodotti del Sud, ricette del Nord e tocchi asiatici: insomma, un piatto milanese DOC 2.0. Il piatto costa 20 euro, buona la varietà e anche la quantità (in due ci si fa un antipasto “comodo”).
Tra i primi scegliamo il risotto non risotto (15 euro): chicchi di sedano rapa risottati con Parmigiano Reggiano 24 mesi, mantecati al burro con un “midollo di zucchina” e chips di patate croccanti.
Oltre che bello, questo è un piatto che convincerebbe anche gli scettici non-scettici.
Il filo rosso è una certa dolcezza di fondo, ma non risulta stucchevole e anzi, è una buona scoperta. Non certo “cosa per vegani”, ma i vegetariani potrebbero apprezzare molto.
Potevamo forse non sperimentare il sushi di verdure vegano?
MasterChef insegna che mantenere intatto il colore delle verdure è cosa assai complicata, ma qui ci sono riusciti, ci dicono, con la cottura singola di ogni elemento nel piatto: peperone, cipolla, melanzana, carote, daikon, cavolfiore con base di riso da sushi, salsa teriyaki, un maki con melanzana fritta notevole e delle chips di zenzero (mortalmente piccanti, vi avviso).
Così, anche i vegetariani (con 18 eurini) possono inforcare le bacchette e darsi un tono Japan: non poco, vista la materia prima, ma facciamo i buoni e consideriamo anche il lavoro che ci sta qui dietro.
Io ci metterei una settimana e mi farei venire l’esaurimento, così per dire.
Sezione secondi: dopo maionesi vegane e sushi di verdura ho davanti un bivio. Continuare sul virtuosismo animalista o considerare di aver dato il mio minimo apporto alla causa e potermi concedere almeno del pesce.
La risposta la conoscete.
Rientro nei ranghi con il polpo su crema di castagne e funghi shitake. Porzione corposa per un polpo ben abbrustolito (croccante nelle parti sottili e morbido nel cuore del tentacolo).
Certo 25 euro non sono pochi…
Assaggio anche il baccalà con olive taggiasche, crema al basilico e radicchio tardivo. Anche qui una porzione (fin troppo) generosa per un piatto da 22 euro. Senza infamia e senza guizzi particolari per una presentazione eccessivamente barocca.
Abbiamo l’impressione che da Capra e Cavoli si persegua quella che chiamano cucina di addizione. Forse alcuni piatti starebbero meglio un po’ più basici e con meno elaborazioni e fronzoli che distraggono soltanto.
“Si fa così, rossetto e cioccolato…” cantava la Vanoni, e a furia di cantare ha dato l’ispirazione alla chef che ha interpretato a suo modo una canzone un po’ peccaminosa.
Il dolce (uno in due se no rischio di uscire da un ristorante quasi vegetariano più piena che alla grigliata di ferragosto) è buonissimo e bellissimo. Un tortino romantico a forma di cuoricino ai tre cioccolati e un festival di praline al lampone più “erotiche”.
I dessert vanno dai 7 ai 15 euro, ma se sono tutti così vale anche la pena.
PRO: il tentativo di creare uno spazio di (quasi) non discriminazione. Questo, ricordàtelo, è territorio per vegetariani, amici di vegani e con qualche conoscenza anche fra gli amanti del pesce.
Insomma, sembra l’istantanea del popolo contemporaneo, indeciso sul da farsi (pesce sì o no?), stanco del pinzimonio tristarello e delle solite creme marroncine vegane.
E’ un posto in cui il carnivoro indefesso non entrerà, ma che potrebbe conquistare il flexitariano o i gourmet in fase di cambiamento.
E poi alcuni piatti meritano decisamente, uno su tutti il risotto non risotto, ma pure il dessert. In realtà ho visto anche passare un hamburger veg che aveva un gran bell’aspetto, ma di quello non vi posso dire.
CONTRO: avete presente quando il vostro tavolo “balla”? Qui può succedere invece che vi “balli” il piatto: sottopiatti di legno, impiattamenti sui bordi e personale goffaggine. Il tutto concorre al non stare propriamente comodi e rilassati: l’ergonomia è un concetto da applicare, no?
Qualche piatto è rivedibile, nel senso che senza drammi andrebbe semplificato e reso più semplice e riconoscibile nei sapori primari.
Anche qualche prezzo potrebbe essere leggermente limato in favore di una non discriminazione dei secondi (che sono un po’ troppo cari rispetto al resto del menu).
Ah dimenticavo, i cartonati degli chef. Quelli, anche ora che sono a casa, continuo a non capirli.