Quel metodico e sartoriale ridare al vincitore mancato ciò che Sanremo gli ha tolto –con qualche anno di ritardo– è noto come meccanismo di compensazione del Festival, inteso come Festival della canzone italiana.
I capoccioni della Guida Michelin fanno qualcosa di simile. Per salvaguardare l’immagine conformista e compassata della Rossa, premiano i cuochi bravi ma poco rassicuranti con scarsa velocità: più che su gomma sembrano muoversi su cingoli.
Volete degli esempi? Ce ne sono due vistosi anche nell’edizione 2019.
1) Davide Caranchini del ristorante Materia di Cernobbio, in provincia di Como. La stella arriva perfino dopo il New York Times, che già da un po’ ha definito “rivoluzionario” l’approccio alla cucina dello chef classe 1990.
Da gennaio 2018, Caranchini fa parte anche dei “30 under 30”, l’influente lista della meglio gioventù internazionale colta dal mensile americano Forbes mentre si prepara a governare il mondo.
[Chi è Davide Caranchini, e che ci fa nella classifica under 30 di Forbes]
2) Anche Floriano Pellegrino, 28enne proprietario e chef del ristorante Bros’, si trova nella stessa lista, a un anno esatto di distanza dalla sua fidanzata, Isabella Potì, che del ristorante di Lecce è la pasticciera.
[Chi è Floriano Pellegrino, e che ci fa nella classifica under 30 di Forbes]
[Pastry chef: chi è Isabella Potì e che ci fa a 21 anni nella lista di Forbes]
Eppure la stella, incurante dei riti propiziatori inscenati da Dissapore, con annesse pratiche vudù, è arrivata solo da qualche giorno.
[Guida Michelin 2018: a chi andranno le stelle?]
E vediamo quando la Guida Michelin si accorgerà di Alberto Gipponi.
[Dina a Gussago: perché Alberto Gipponi è molto più che una promessa]
Anche le tardive tre stelle prese da un cuoco come Uliassi, “già grande al tempo del sesto governo Andreotti”, ha ironizzato su Il Foglio lo scrittore Camillo Langone, fa pensare alla modesta velocità dell’ispettore Michelin.
Che in questo, riconosciamoglielo, è in buona compagnia.
Dov’erano i fan giubilanti che da giorni, su Facebook, riesumano vecchi selfie con lo chef degno delle tre stelle solo a sessant’anni suonati? Da cosa era distratto l’ispettore Michelin che per far passare il ristorante da 2 a 3 stelle ci ha messo quasi dieci anni?
In attesa di risposta, se volete saperne di più su Mauro Uliassi, seguite il percorso che abbiamo preparato per voi. A comporlo sono gli articoli più appassionati apparsi negli anni su Dissapore.
[2055: breve storia del futuro di Mauro Uliassi, un Dio in terra come cuoco]
Dal futuro, il direttore compie un immaginario viaggio a ritroso nel tempo per rievocare il lavoro di un cuoco “circondato da una componente di fede e tifo negli anni dieci di questo secolo, ma sempre meno accreditato rispetto agli strappi, alle svolte che lasciava immaginare a noi attivisti culinari”.
[10 motivi per cui spendere 150 euro da Uliassi è un preciso dovere morale del popolo tutto]
Il titolo è provocatorio. Ma l’uso che ne fa Alessandro Morichetti, già editor di Dissapore, serve a spiegare che sedersi al tavolo di un ristorante tre stelle Michelin non è una questione di soldi ma di priorità. “Spendiamo in cellulari tecnologici, accessori per auto, cosmetici, massaggi, televisori di ultima generazione e pantaloni firmati ma il pensiero di un esborso a 3 cifre per il ristorante ci atterrisce. Si tratta pur sempre di mangiare, no? E che ci sarà di speciale?
[Uliassi: una cena consistente]
Ancora il direttore. Questa volta lamenta che, pur essendo una lingua meravigliosamente espressiva per quasi tutto, l’italiano è incredibilmente limitato quando si deve raccontare il cibo. “Il mio problema è che trovo realmente difficile usare le poche parole disponibili, non scriverò mai che qualcosa è “succulento”. “I sentori aleggianti”. “Irrorare”. “Goduria”. “Acquolinoso”. Non posso scrivere “coccole”. E così, descrive una cena “consistente” da Uliassi usando solo numeri.
[Spremuta ghiacciata di granchio: il piatto dell’anno è di Mauro Uliassi]
A Uliassi riesce spesso di concentrare la smisurata cultura culinaria in alcuni piatti simbolici, che diventano classici istantanei. L’ex editor Antonio Tomacelli ne racconta uno.
[Crediti | Il Foglio]