Siamo stati alla trattoria Il Timoniere alla Garbatella, a Roma, per vedere se fosse all’altezza delle nostre aspettative. La recensione.
Dura, la vita del cacciatore di trattorie. Dura perché molti dei luoghi “eletti”, tramandati dal folklore, dalla letteratura e dalla cinematografia come patria di mangiari poveri, di ristorazioni genuine; hanno nel tempo capitalizzato sulla loro fama trasformando le antiche osterie del popolo in trappole denaturate per americani in visita, che cercano la favola, si prendono la sòla.
Prendiamo Roma: tutti si immaginano ancora viva un’Arcadia trasteverina in cui ogni vicolo pulsi di locande dove con due spicci i carrettieri si fermano a mangiare il quinto quarto. Ma trovare una trattoria in città, che sia una trattoria vera che offra qualcosa di diverso dalla minestra scaldata del generico, credete sia facile? Certo, carbonara e coda le fanno tutti: ma quanti le cucinano bene? Quanti non comprano le materie prime da megadistributori HoReCa che inondano il mercato urbano di prodotti dozzinali e tutti uguali? E soprattutto, chi propone la propria cucina a prezzi accessibili; attributo essenziale del concetto stesso di t-r-a-t-t-o-r-i-a? Dopo anni di instancabile esplorazione, ve lo dico: pochissimi.
L’offerta è incredibilmente monotona e piatta, perché spesso monotona e piatta è la soglia di apprezzamento di un pubblico sempre più incapace di cogliere le differenze tra cibo buono e cibo qualunque.
E chi lavora diversamente? Se non sa comunicarsi, è difficile da rintracciare. Le logiche del SEO che portano un locale sulle prime pagine dei motori di ricerca sono per loro natura quanto di più distante esista dall’essenza del ristorante casereccio. La mirabolante bibbia del tutto che è l’Internet non aiuta, in questo senso: cercare su Google “migliori trattorie di Roma” apre orizzonti spaventosissimi su qualunquismi da Tripadvisor, articoli prezzolati, americanità assortite scritte ad uso e consumo del carnaio macinaturisti. Il passaparola, storico strumento di condivisione di posticini segreti, soffre e non poco da quando per farsi un’opinione (sulla politica, come sul dove andare a cena) basta dare due toccatine allo smartphone: eppure resiste, e lotta insieme a noi.
Così non mi stanco mai di chiedere, quando capita la discussione con gente di quartiere: secondo te, amico mio, qual è la trattoria che non posso non provare a Testaccio/Monteverde/Porta Portese?
Amici di Garbatella mi hanno indirizzato al Timoniere.
Il ristorante
È una sera da lupi, diluvia. È Lunedì, il Timoniere è aperto. Si accede, tra una pozzanghera e uno scroscio di grondaia di questa novembrina serata di Maggio, dagli anditi di un cortile che più rappresentativo della Garbatella storica non si può. Sembra quasi di andare a mangiare a casa di qualcuno, qualcuno che abiti in un palazzo popolare razionalista del Ventennio, e questo ci piace. La porta reca solo una targhetta con scritto ENTRATA, sullo sfondo tendine bianche di similorganza che precludono la vista. Benissimo. Ti fermi sull’uscio, e prima di scendere i 3 gradini sei calato del tutto negli anni ’60 – perfetto. Boiserie di fòrmica, tovaglie a quadri, sedie post art déco, foto vecchie, Aldo Fabrizi, la cassa che è un tavolo con scartoffie e calcolatrici, due anziani titolari, quadretti di caccia da bric à brac e a coronare l’atmosfera camp un Teomondo Scrofalo originale. Sala in odore di Sacro Graal delle trattorie.
I gestori sono adorabili, è adorabile il signore che mi dice che è finito il vino della casa e mi darà una bottiglia delle loro delle più quotidiane (a 15 euro, scoprirò più avanti). È adorabile la signora che mi avvisa che i secondi di quinto quarto secondo disponibilità non sono, per l’appunto, disponibili perché è Lunedì ed è fermo il mercato; e per di più è finita la trippa (che è esattamente quello che avrei scelto, ma la prendo con filosofia: ordiniamo quello che c’è, perché ci hanno fatti entrare col cane, perché dice la signora, che è adorabile, che i cani sono meglio delle persone, perché le aspettative, dai consigli e dalla sala, le ho autofomentate e sono alte).
Allora mi siedo e guardo il menu adorabilino anche lui. Scritto a mano, stampato a casa, foderato in un raccoglitore coi fogli di pvc, sembra tutto come una volta e ASPETTA MA QUELLI SONO I PREZZI?!
Antipasti 10 euro. Primi 10 euro. Secondi a 14 e 16. Faccio una smorfia e la sensazione di essere sul punto di aver trovato un posto come lo sognavo (economico, genuino, in una parola: t-r-a-t-t-o-r-i-a) mi scivola tra le dita come a Di Maio la convinzione di governare il Paese. Mi faccio forza e stringo il pugno, resta cu mmè, famme sogna’, diamogli una possibilità.
Comincio già a giustificare questo posto che tanto bene mi aveva impressionato, trovando preventivamente scuse nel diniego come l’innamorato cornificato; ignorando più forte che posso l’elefante nella stanza: l’ingombrante sospetto che anche stavolta il sogno della trattoria romana perfetta resterà, per l’appunto, un sogno.
Magari solo l’involucro è rimasto antico ma questa è una trattoria moderna, mi dico, e in cucina c’è il figlio dei proprietari che dopo 12 anni da sous chef alla Pergola ha deciso come in ogni libro Cuore che si rispetti di lasciare la ribalta e prendere in mano la vecchia attività di famiglia.
Magari è speciale il mangiare tradizionale, fanno una amatriciana così perfetta che potrebbe sconvolgere i canoni della fisica, con un guanciale di maiale tranquillo allevato in una caverna artesiana dell’Appennino umbro, adagiato su un sofà di pelle, a suon di pappardelle al tartufo.
O forse i prezzi sono questi ma con una porzione, come nell’epopea di Gargantua e nelle immagini del Paese di Cuccagna, ci si mangia bene in tre.
O magari, insiste sibilante e scomodo l’istinto da gastronomo disincantato, anche stavolta sarà un inconsistente nulla di fatto. Sta’ zitto, istinto! Sono cinico, ma sai che voglio sempre credere alla magia dell’eccezione, alla storia di Natale che scalda il cuore, all’episodio disneyano. I want to believe. Ordiniamo.
I piatti de Il Timoniere a Roma
Volevo la trippa e la pajata ma non ce n’è. Ripieghiamo su due antipasti, un primo, un secondo.
La parmigiana è molto parmigianosa. Il cacio domina fette ciccione di melanzana dalla consistenza un po’ pastosa e con qualche seme di troppo, completandole con buona mozzarella filante e una salsa di pomodoro discreta. Lo sapevo già ma è ufficiale, hai vinto, istinto; smetto ogni illusione e si spezza l’incanto: non ci sono enfant prodige ai fornelli, la cucina è da trattoria alla buona e fa il paio con l’atmosfera “vecchie maniere”, i prezzi invece sono fuori calibro e basta. Ingredienti qualsiasi, porzioni normali. Piatto tutto sommato promosso, ma a dieci euri anche no.
L’insalata di aringa e arance sulla carta funziona, peccato che l’aringa sia pochina e l’aceto bianco tanto e imperante. 10 euro di lattuga iceberg e buone intenzioni (forse).
La carbonara con i fiori di zucca è ottima. Delicata, gustosa, sapida e cremosa; riesce incredibilmente a mettere in luce la sottile dolcezza dell’ingrediente aggiunto. La fettuccina è ben cotta e si lascia mordere. Vale il prezzo.
Saltimbocca alla romana d’antan, aspetto casereccio con fettina di vitello ben rosolata e prosciutto crudo steccato alla salvia in punta di stuzzicadenti. Più che saporito al primo assaggio, salatissimo dal secondo in avanti e annegato nel burro; ben oltre le possibilità di salvataggio offerte dalle note balsamiche dell’erba aromatica. Per quattordici euro (14!) sarebbe stato più che lecito aspettarsi altro. Nota di merito alle patate al forno che provano affannosamente a mettere una pezza al dilagare generale del sale, tipo Nesta contro Ronaldo, e ad una cicorietta all’agro davvero impeccabile.
Mi alzo simpaticamente scazzato, come se uscissi dal casino con 15€ dopo averne vinti e dilapidati seimila nell’arco della serata, pagando al tavolo con la calcolatrice e le scartoffie (ma hanno il POS) 63€ per quattro piatti e una bottiglia anonima.
Peccato, perché è proprio bello a vedersi, mi dico. L’istinto cinico e la volontà di credere nella magia come sempre fanno pace e si fanno forza, rinsaldandosi in una sola personalità fatta di contrasti e perciò assetata di scoperta continua, alimentata da inesauribile speranza. Mi chiudo alle spalle la porta e le tendine e m’incammino nella pioggia ancora battente. Trattoria romana perfetta, so che ancora esisti: ti troverò e ti farò mia. Se avete consigli, lasciateceli nei commenti – la ricerca continua.
Informazioni
Il Timoniere
Indirizzo: Via Francesco Orazio da Pennabilli 5, Garbatella, Roma
Numero di telefono: 06 2111 9790
Orari di apertura: tutti i giorni tranne la Domenica, dalle 12.00 alle 15.00 e dalle 19.30 alle 23.00
Tipo di cucina: tipica romana
Ambiente: senza pensieri, vecchio stile
Servizio: casalingo