L’altra sera sono andato alla festa per i 260 anni di Del Cambio, uno dei più storici ristoranti italiani: è nato a Torino nel 1757, ci andavano Cavour e Nietzsche, Puccini e D’Annunzio, Balzac e la Callas.
Un luogo intriso di storia, come comunica la celebre sala aulica che non è originale, ma è rifatta bene, non come certe vecchie signore tirate come rande.
Come tanti sanno, ora i fuochi di piazza Carignano sono governati da Matteo Baronetto, cuoco d’avanguardia, per anni braccio ambidestro di Carlo Cracco, negli ultimi al comando di questa corazzata.
Da quando Baronetto è sbarcato al Cambio, tutti si chiedono: come si fa a far convivere un luogo così carico di passato con il talento di un professionista proiettato verso il futuro?
Ieri sera Baronetto ha dato la propria risposta: affiancando, letteralmente, tradizione e contemporaneità. Cioè: nel nuovo menù tutti i piatti sono proposti nelle due versioni, classica e contemporanea.
Così abbiamo mangiato due declinazioni dei gamberi in salsa rosa, due del vitello tonnato, due degli gnocchi alla bava, due della milanese, due della finanziera, due del bonet.
All’inizio i commensali, me compreso, erano tutti intenti a decretare, per ogni corsa, quale fosse la migliore: “eh gli gnocchi vecchio stile, che golosi”, “Ma quelli moderni, che pulizia”. Come fosse una gara.
Un talent show.
Poi ho capito che eravamo caduti in un errore enorme. Certo non era intenzione del cuoco farci mangiare due cose, di cui una più e l’altra meno buona. L’intenzione di Baronetto, sono certo, era dimostrarci, invece, che tanto la tradizione –fatta a modino– quando la contemporaneità possano essere parimenti squisite, pur dando emozioni diverse.
La lezione che ho imparato è questa: a Del Cambio si mangia oggi esattamente come 260 anni fa. Cioè: benissimo e al passo coi tempi.
Tutte le tradizioni sono state contemporanee.