Gualtiero Marchesi, lo sapete, non tocca alcol da 17 anni e pensa che il vino faccia schifo. Arturo Spicocchi, già chef della Stua de Michil di Corvara in Alta Badia è astemio, wine-free è anche il Joia di Milano, primo ristorante vegetariano d’Italia con stella Michelin. Stellato come il Luksus di New York che non ha né vino né cocktail nel menù.
Cosa succede, le quotazioni dell’abbinamento vino/pietanze stellate sono in ribasso?
Staremo a vedere, ma sappia chi dovesse pensarla come l’ottuagenario e ancora arzillo Marchesi che non rischia l’apartheid gastronomico: lo salverà il juice pairing.
Juice pairing?
Estratti di frutta e verdura ad accompagnare le creazioni di chef all’avanguardia che per i loro menu cerebrali battono orti, campi e boschi di montagna, nel nome di un’attenzione maggiore per come mangiamo, e anche per riscoprire, pare, un intero mondo di sapori.
Il solco è stato tracciato al Noma quasi un decennio or sono da Rene Redzepi, chi altri sennò. Nel suo celebrato ristorante di Copenhagen è possibile sorseggiare blend analcolici in apparenza arditi ma accuratamente studiati (tipo la combinazione siero di latte e cetriolo, gli shottini composti da succo di mela e germogli di pino, o ancora da acetosella e nasturzio, una pianta originaria del Perù).
Oggi in Australia sono tanti i ristoranti di alta cucina che seguendo le orme del Momofuku Seiobo, aperto a Sydney nel 2011, locale della costellazione Momofuku (riconducibile a David Chang, chef di origini coreane che la rivista Time ha definito il più influente del mondo), che propongono estratti di cipolle in abbinamento alla cernia al vapore.
La moda del juice-pairing è molto diffusa anche negli Stati Uniti, basti pensare che perfino il lussuoso Eleven Madison Park di New York, ristorante tre stelle Michelin, propone un percorso di abbinamento tra le portate e una nuova generazione di bevande fermentate che hanno il compito di amplificare le sensazioni di un pasto raffinato.
Proprio come farebbe il vino.
Perfino la vecchia Europa, dove l’inedita pratica potrebbe far sorridere i clienti di molti ristoranti prestigiosi, non è immune dal juice-pairing.
Stavolta è Londra a precedere tutti con lo stellato Clove Club dove si possono assaporare i piatti del menu in soft pairing con bevande analcoliche tipo latte di noci, infusi, tè, estratti di frutta e vegetali.
Abbinamento preferito dai clienti: agnello delle isole Ebridi cucinato con alghe e menta insieme al tè oolong proveniente da Cina e Taiwan, noto per le proprietà antiossidanti. I tannini del tè ben si bilanciano con le carni più grasse dell’agnello.
Se i sommelier ci hanno insegnato a considerare il vino come un altro elemento del piatto, quasi fosse una salsa o un altro condimento, il concetto resta lo stesso qualunque sia il liquido contenuto nel bicchiere: birra, vino, o appunto, succo di frutta.
[Crediti | Link: Telegraph, Il Giornale]