Io non ho mai fatto il cameriere. Questa affermazione solo qualche tempo fa sarebbe suonata insopportabilmente snob e classista. Adesso, il contrario. Adesso, che la propaganda padronale ha cambiato lievemente registro: si è passati dalle crociate contro il reddito di cittadinanza al grande classico di “io ai miei tempi”. Il bersaglio è sempre lo stesso, però: i giovani che non hanno voglia di lavorare, che non hanno abbastanza “fame”. È proprio di fame che ha parlato Hoara Borselli, ex modella e personaggio televisivo, in un tweet di qualche giorno fa che non smette di suscitare reazioni e polemiche sui social. Di fame aveva parlato anche Viviana Varese – stimabilissimo personaggio, per me fino a quel momento – nel famigerato pezzo del Corriere che aveva suscitato polemiche soprattutto per le dichiarazioni di Alessando Borghese, ma nel quale quasi tutti gli chef interpellati erano stati su quel tono (con la lodevole eccezione di Antonia Klugman): “Non si tratta di voler punire, ma di cercare di creare una classe lavoratrice strutturata. Il lavoro c’è, bisogna solo avere fame. Se uno non l’ha dentro, allora la si induce”.
Ma il leitmotiv adesso è: anche io mi sono fatto il mazzo quadrato, quindi ora che tocca a te, sgobba e non protestare. Vittoria Zanetti, la fondatrice di Poke House, qualche giorno prima, con meno crudeltà ma non meno retorica, aveva dichiarato all’Huffington Post: “Sono partita dal basso: ho iniziato a lavorare nei ristoranti e nei bar. Ho fatto la cameriera, la caposala, la barista. Non c’erano orari fissi, i miei superiori erano molto severi, si lavorava duramente. Sono state esperienze ‘toste’ ma mi sono servite tantissimo”.
Io non ho mai fatto il cameriere, né da ragazzo né dopo. Ho fatto il pizzaiolo, per un po’ ho anche lavorato in una panetteria, primo di tornare a fare mestieri ancora più umili come il giornalista. Non l’ho mai fatto ma so che “fare il cameriere” non vuol dire una cosa sola: ne vuole dire almeno due. C’è una differenza, enorme, tra fare il cameriere per qualche ora (come Hoara, “alcuni giorni… dalle 12 alle 16) o per qualche stagione, e fare il cameriere di mestiere. Nel primo caso lo fai per cazzeggio (il caso di Hoara), o per pagarti gli sfizi (se hai i genitori ricchi che ti tengono a stecchetto), o per finanziarti gli studi (se sei di famiglia povera), per imparare l’inglese (quando si andava a fare il cameriere a Londra), persino per “fare un’esperienza” (come i figli degli industriali che passano qualche settimana in fabbrica tipo zoo safari). Sono tutti motivi più o meno nobili, ma che hanno in comune una caratteristica: la transitorietà. Non a caso sono quelle cose che si fanno da giovani (e che poi si raccontano per tutta la vita, cheppalle).
Ancora diverso, ma sempre legato a un passaggio, è il caso di Zanetti: che non a caso parla di gavetta, perché partendo dal livello base di lavoro in bar e ristoranti, poi se l’è aperta lei, una catena di locali. Si rimane nell’ambito food, insomma, è un sacrificio rivolto al futuro, alla costruzione di un percorso. Discorso diverso, ma comunque inficiato da quello che si chiama survivor bias: l’inganno mentale che ti porta a credere che siccome chi “ce l’ha fatta” è passato per la gavetta, allora tutti quelli che passano per la gavetta ce la faranno (a far qualcosa d’importante, di unico e di grande). Invece no, la maggior parte dei camerieri non diventeranno né chef né startuppari, e non perché non sono bravi ma semplicemente perché al mondo ci sono molti meno “posti” da chef o CEO che da camerieri.
Dall’altro lato, abbiamo quelli per i quali il lavoro in sala non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo. O un ripiego, una soluzione tappabuchi, un downshifting (come quello di chi ha studiato da sommelier ma non trova offerte adeguate al proprio cv): situazioni che possono essere temporanee come no. E allora. Posto che il lavoro va sempre retribuito, e che pagare in gelati e patatine è criminale e basta. C’è una differenza soggettiva, da lato di chi lavora: se l’impiego è temporaneo, sarai anche disposto ad accettare soprusi e sfruttamento a cuore più leggero – forse, non è detto. Ma sicuramente se fare il cameriere è il tuo lavoro, allora nessuna gavetta, nessuna promessa o aspirazione possono servire a giustificare i contratti in nero, gli straordinari non retribuiti, gli insulti il mobbing e le molestie. Né da parte del titolare, né da parte di chi pontifica in TV o sui social.