Sia chiaro: adoro le feste. Mi piacciono i riti, quelli gastronomici soprattutto, le tavolate, l’abbondanza, le tovaglie di fiandra, quella teoria di stoviglie, posate e bicchieri che coprono il desco.
Amo il Natale, la Pasqua, persino Ferragosto.
C’è una sola ricorrenza che mi sta veramente sui maroni: San Valentino.
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San Valentino lo aborro. Mi fa infuriare. Non sono l’unico, considerando che per togliere l’aura mielosa al 14 febbraio Al Capone organizzò una strage.
E la cosa peggiore di San Valentino sono gli addobbi e i menu dei ristoranti che provano a ravvivare una serata altrimenti molle (quest’anno, per dire, cade di mercoledì).
Per San Valentino i ristoranti danno il peggio di sé.
Coniano all’uopo nomi che dovrebbero essere simpatici: il “Tiramisù dell’amore”, “Lasagna per due”, “lo spaghetto di Lilli e il vagabondo”.
Danno una nuova guisa alle pietanze: la panna cotta è a forma di cuore, il soufflé sembra SpongeBob che imita un angelo.
Usano accessori imbarazzanti: forchette con Cupido sull’impugnatura, agghiaccianti centrotavola della Thun a forma di putti.
Abbassano le luci precipitandoti nell’oscurità, mettono in sottofondo Mario Biondi, e ogni tanto ti chiedi se a gorgogliare sia il disco o il tuo stomaco.
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Le cene di San Valentino –che uno sia al primo appuntamento o sposato da trent’anni– finiscono sempre a schifio, perché il confronto con il tavolo accanto è barbaro: c’è una coppia evidentemente più felice, evidentemente più ricca, evidentemente più appagata dal punto di vista sessuale.
È o voi o la vostra metà, a un certo punto, direte: “vedi LORO come sono contenti?”
Se vi amate, andate a cena fuori quando volete. Avete 364 giorni a disposizione.
Evitate solo il 14 febbraio, quando il maître ha la cravatta rosa e Barry White vi mormora “Ohhh yeah”.
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Magari lasciate stare anche il 15, se non volete rischiare di mangiare il “Tiramisù dell’amore”, trasformatosi, come la carrozza di Cenerentola, nel “Tiramisù del giorno prima”.