Bisbetici come siamo quando ci sediamo al tavolo del ristorante è chiaro che ci piacerebbe far iscrivere ai corsi di Accademia Ferrarelle, partner di Dissapore, i nostri lettori che svolgono le professioni, difficili e bellissime, della ristorazione.
O coloro che vorrebbero farlo.
Un’occasione migliore degli appuntamenti 2017 per migliorare la conoscenza dei cibi e delle tecniche di preparazione sostenuti da gastronomi e grandi chef, è difficile da trovare.
Il secondo corso che vi segnaliamo, dopo quello sulle birre artigianali, inizia il prossimo 12 giugno nella sede Accademia Ferrarelle di Riardo (CE), vale a dire l’antica Masseria Mozzi, ristrutturata nel rispetto della struttura originaria e situata all’interno di un grande parco.
Tenuto da Roberto Carcangiu, Presidente APCI (Associazione Professionale Cuochi Italiani), il corso è dedicato al food cost, la disciplina che studia come si calcola il costo di un piatto.
Tratterà di classificazione dei costi, degli scarti, del calo peso, di come si prepara un budget di cucina preventivo e dei due food cost (già, perché uno non basta) al costo di 150€.
Se vi piace il tema non perdete tempo: acquistatelo subito.
Con il food cost ci si riempiono la bocca gli studenti di marketing, per poi dimeticarsene quando dopo la laurea aprono un bel ristorante e, ahinoi, sono costretti a chiuderlo dopo due anni.
Se è vero, come dice qualcuno, che oggi per gestire un ristorante servono tre lauree, quella da contabile è la principale.
Ne parliamo con Alessandro Miocchi, che dalle epiche cucine di Enrico Crippa –ristorante Piazza Duomo di Alba (CN), 3 stelle Michelin– è sbarcato a Roma per aprire il locale rivelazione del 2016 insieme al socio Giuseppe Lo Giudice (già al ristorante Il Pagliaccio di Anthony Genovese).
Se ci andate come clienti troverete sorprese molto piacevoli, dai prezzi accessibili ai piatti di alta cucina; l’occhio del ristoratore o aspirante tale non potrà non notare un format innovativo, nel cuore di Roma, basato sul riuso.
Non solo nell’arredo del locale da 160 metri quadri complessivi tra sala, cucina e magazzino, realizzato con materiali di recupero e un ampio ricorso al fai-da-te, ma anche nel menu. Insomma, il posto ideale per parlare di food cost.
Quali soluzioni avete adottato per contenere i costi di manodopera?
Non abbiamo sovrastrutture, è questo il nostro vantaggio. Tutto è incentrato sul piatto, anche noi cuochi usciamo dalla cucina per occuparci della sala, e tra un servizio e l’altro i tavoli vengono apparecchiati dai clienti stessi, con le posate che trovano nei cassetti e i calici appesi.
Nei 70 metri quadri della sala, con 35 coperti, riusciamo a servire 100 pasti al giorno. Un ristorante con una cucina simile alla nostra di solito non riesce a rispettare un ciclo simile.
Non ci limitiamo a contenere i costi, lavoriamo di più: il servizio dura dalle 12 alle 23:30, in modo da coprire i pasti di chi pranza tardi e di chi deve cenare presto, fasce orarie in genere poco coperte. Abbiamo il doppio del tempo per incassare e, ovviamente, ammortizzare le spese fisse di un piccolo locale che tenuto chiuso ha solo da perderci.
Come è vissuta dai clienti questa insolita organizzazione del lavoro?
Beh, hanno accolto a braccia aperte una cucina “stellata” a prezzi accessibili. La possibilità di parlare con gli chef in sala è vissuta come un vantaggio (anche da noi che così spieghiamo meglio i piatti, risparmiando il tempo necessario al trasferimento delle ordinazioni) e una maggiore cura dei piatti viene preferita al servizio formale e ingessato.
Quindi è la cucina a incidere principalmente sul vostro food cost.
Certo. Ora siamo in 13, due titolari e 11 dipendenti. Tutti cuochi che ruotano tra tavoli e fornelli e siccome conoscono bene i piatti lavorano in armonia con chi sta cucinando.
Abbiamo quasi triplicato le etichette presenti nella carta dei vini, cosa che ci ha permesso di organizzare dei corsi di assaggio e somministrazione interni al ristorante, ma in genere cerchiamo di avere poche spese fisse.
Come bilanciate il costo del piatto?
Ogni piatto è composto da un ingrediente principale, in genere abbastanza pregiato, e da altri poveri: una ricciola non sarà accompagnata dalla primizia di stagione ma dal tenerume (foglia tenera della pianta di zucchina, ndr), che per quanto possa essere ricercato, spesso si scarta.
Ogni piatto viene completato non solo dall’ingrediente povero ma da altri derivati da quello principale: usiamo il fegato della ricciola per fare una mousse, ad esempio.
Cerchiamo di dare dignità gastronomica agli ingredienti che di solito si buttano, come le foglie e le radici degli ortaggi, arricchendoli di sapore. Parlando in soldoni, se un piatto costa 4 euro, lo mettiamo sul menu a 12 euro per ripagare il costo del lavoro e le energie spese.
Tra i grandi gruppi di materie prime, carni, pesce, verdure… quale incide di più?
Senza dubbio il pesce. Ci sono ingredienti impegnativi in termini di costo, come per esempio il branzino pescato (non d’allevamento).
Ma intendiamoci, tenere il food cost sotto controllo non significa rinunciare alla qualità, o accontentarsi. Il risparmio, come abbiamo detto, viene da altre cose.
Bisogna mettersi l’anima in pace, sappiamo che la qualità incide, e proprio per questo dobbiamo conoscere le componenti del costo di un piatto, tenerle sotto controllo, escogitare soluzioni applicando la pratica in cucina e un po’ di creatività.
A quale percentuale di utile riesce ad arrivare un ristorante come il vostro?
La percentuale è superiore a quella dei manuali sul food cost, indicata in genere intorno al 15/20 per cento.
In altre parole, gestendo in modo oculato le spese per gli ingredienti e quelle generali, oltre alla manodopera, riusciamo ad arrivare al 30/35 per cento.
Ogni quanto rivalutate il food cost?
Il ricalcolo viene fatto mensilmente, dal momento che cambiamo 12 menù l’anno, da 20 piatti ciascuno.