Ieri chiacchieravo con un imprenditore della ristorazione: una persona davvero a posto, con la testa sulle spalle, determinata, dotata di spirito imprenditoriale e al contempo senso civico. In due parole: una persona capace e onesta.
Un imprenditore con tre locali, decenni di lavoro alle spalle, decine di dipendenti e conti in ordine. Ebbene, questa persona a un certo punto mi dice: “non voglio crescere più perché non mi farebbe guadagnare di più; più cresco più l’attività diventa complessa ma non più redditiva. Il commercialista mi dice che sono fesso a non fare nero, ma non voglio arrendermi al fatto che l’unico modo per fare profitto sia infrangere la legge.”
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Me l’ha detto serio, senza piangersi addosso, con la forza di un imprenditore tutto di un pezzo e di successo. Io questa impressione ce l’ho tante volte: che i ristoranti onesti non facciano profitto. Non dico che non riescano a pagare il proprio lavoro – se il titolare è in sala o in cucina riesce più o meno a remunerarsi – ma l’impresa deve produrre utile che, ricordi da scuole medie, è quel che avanza dopo aver tolto i costi dai ricavi al netto delle imposte.
Sarà che sui giornali di oggi si parla tanto di nuove norme, ma questo discorso di ieri mi è rimasto addosso tutta la notte. Lo so che pare contraddetto dalle innumerevoli aperture, che farebbero presagire una certa facilità in questo tipo di impresa: ma quante durano? E quante, soprattutto, rispettano al 100% la legge?
Triste, tristissimo è il Paese in cui agli imprenditori passa la voglia.