A quanto pare mangiare al ristorante al tempo del Covid è ben più rischioso di quanto – molto indulgentemente – provassimo a convincerci. Le distanze interpersonali che ci diamo solitamente in questi luoghi, molto raramente superiori al metro, possono risultare ampiamente insufficienti, soprattutto in condizioni particolari, come quando ad esempio ci si trovi nella traiettoria di una corrente d’aria – naturale o artificiale che sia.
A dimostrarlo è un recente studio sud-coreano pubblicato a inizio dicembre sul «Journal of Korean Medical Science», firmato dal dottor Lee Ju-hyung e dai sui collaboratori, che ha ricostruito la storia di un contagio apparentemente inspiegabile verificatosi nella città di Jeonju, nel sud est del paese.
Dato che l’esperimento risulta tanto illuminante quanto preoccupante, cercherò di ricostruirlo con una certa dovizia di particolari, più o meno come avviene nell’articolo di Victoria Kim del «Los Angeles Times», dove ho appreso quanto vado scrivendo (le citazioni tra virgolette naturalmente vengono da lì).
Da quando ha condotto le sue rilevazioni il dottor Lee Ju-hyung, ci racconta Kim, ha sviluppato una curiosa abitudine: le poche volte che va a cena fuori porta con sé un anemometro (uno strumento utilizzato in meteorologia per la misurazione della velocità o pressione del vento) per controllare i flussi d’aria. L’esperimento condotto dalla sua equipe infatti intendeva capire come mai un giorno diversi avventori di un ristorante di una città Covid-Free siano rimasti contagiati. Tra questi spiccava il caso di un ragazzo infettatosi dopo un’esposizione di appena cinque minuti a più di 6 metri di distanza. Un piccolo mistero per venire a capo del quale gli studiosi si sono dovuti servire perfino dell’aiuto di un ingegnere specializzato in aerodinamica.
“In questo focolaio le distanze tra i portatori del virus e le persone infettate erano superiori al raggio di trasmissione dei droplet, generalmente stimato in circa 2 metri”, hanno scritto gli autori dello studio. Alla luce di ciò: “Le linee guida sulla quarantena e sulle indagini epidemiologiche devono essere aggiornate, tenendo conto di questi fattori”.
Al riguardo KJ Seung, esperto di malattie infettive e capo della strategia per la risposta al Covid dell’organizzazione sanitaria no-profit Partners in Health in Massachusetts, ha affermato che lo studio coreano è un importante documento sul rischio di trasmissione al chiuso della malattia, soprattutto ora che gran parte del globo entra nei mesi invernali. Queste osservazioni sono in grado di modificare ciò che fino a oggi consideravamo un “contatto ravvicinato” – cioè un’esposizione di almeno quindici minuti a meno di due metri di distanza da una persona infetta. Nel suo lavoro sul programma di tracciamento dei contatti in Massachusetts, KJ Seung ha osservato che l’abitudine di imprenditori e amministratori scolastici di ritenere relativamente sicuri contatti di meno di 14 minuti o a più di due metri di distanza (magari lunghi ore), può essere errata.
“Tutti pensano: se non c’è un contatto ravvicinato, sono magicamente protetto”. Secondo l’esperto lo studio asiatico indica al contrario la necessità di potenziare il track and tracing, col fine di ampliare la platea di soggetti potenzialmente infetti comprendendo anche quelli oggi considerati a minor rischio e che invece potrebbero essere stati esposti al virus.
Cinque minuti
Linsey Marr, professoressa di ingegneria civile e ambientale del Virginia Tech, al lavoro per studiare la trasmissione del virus nell’aria, ha affermato che gli appena cinque minuti in cui lo studente (identificato nello studio come “A”) è stato infettato sono un dato notevole (e allarmante), perché il contagio deve essere avvenuto grazie a una gocciolina abbastanza grande da trasportare una notevole carica virale, ma abbastanza piccola da viaggiare per 6 metri in aria. “A ha dovuto assumere una dose abbondante [di virus] in soli cinque minuti, fornita da droplet probabilmente più grandi di 50 micron”, ha detto la professoressa. “Grandi droplet o piccole goccioline che si sovrappongono, possono trasmettere la malattia a più di uno o due metri, se c’è un forte flusso d’aria”.
Quando il 17 giugno un ragazzo di una scuola superiore a Jeonju è risultato positivo al virus, gli epidemiologi sono rimasti perplessi perché la città non registrava un caso di Covid da due mesi, e anche tutta la provincia di Jeolla – dove si trova Jeonju – non ne aveva da 30 giorni. Il contagiato non aveva viaggiato fuori dalla regione e si era spostato principalmente lungo il tragitto casa-scuola. Per capire cosa fosse accaduto gli addetti al contact tracing hanno consultato la piattaforma digitale introdotta in Corea del Sud durante la pandemia, che consente agli “investigatori” di accedere alle informazioni sulla geolocalizzazione del cellulare e ai dati della carta di credito delle persone infette in appena 10 minuti. I dati GPS hanno rivelato che lo studente si era brevemente sovrapposto a un paziente affetto da Coronavirus di una città e di una provincia completamente diverse: una fattorina in visita a Jeonju. Il loro contatto era avvenuto in un ristorante nel pomeriggio del 12 giugno, per soli cinque minuti.
Quando il dottor Lee Ju-hyung è andato al ristorante per cercare di capirne la dinamica, si è stupito notando il breve intervallo di tempo in cui i due furono contemporaneamente seduti nel locale. Le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso hanno mostrato che i due soggetti non hanno mai parlato o toccato superfici in comune. Tuttavia osservando nei fotogrammi l’oscillazione di una lampada, il dottore è stato in grado di dedurre che in quel momento il condizionatore d’aria del soffitto era acceso. Per compiere il loro esperimento così Lee e il suo team hanno ricreato le stesse condizioni del contagi nel medesimo ristorante, e hanno misurato il flusso dell’aria. Lo studente di liceo e un terzo avventore risultato contagiato erano seduti esattamente lungo il flusso d’aria emesso dal condizionatore. Altri commensali seduti di spalle non sono stati infettati. Infine attraverso il sequenziamento del genoma, il team ha confermato che i tipi genomici del virus dei tre pazienti corrispondevano: erano insomma tutti stati contagiati lì.
“Incredibilmente, pur trovandosi a una certa distanza, il flusso d’aria scendendo dal muro creava una sorta di ‘valle ventosa’. Le persone che erano lungo quella traiettoria sono state infettate”, ha affermato Lee. La velocità dell’aria rilevata nel ristorante, che non aveva finestre, era di circa 1 metro al secondo, come quella propagata da un qualsiasi ventilatore. “Mangiare al ristorante è una delle cose più rischiose durante una pandemia”, ha concluso il ricercatore, “e anche una certa distanza interpersonale, può non essere sufficiente”.
Lo studio è stato pubblicato in un momento in cui la Corea del Sud, come molti altri paesi, è sull’orlo di una nuova ondata di infezioni da Coronavirus, con circa 600 casi al giorno (certo, quasi niente rispetto a quanto registrato in Italia). Seul da alcuni giorni ha cominciato a far chiudere i ristoranti alle 21:00, limitando le caffetterie al solo asporto e imponendo la serrata a diversi altri tipi di locali. La ricerca ha mostrato risultati simili a un’altra condotta a luglio nel Guangzhou, in Cina, che esaminava le infezioni tra tre famiglie che cenarono lungo il flusso dell’aria condizionata in un ristorante, a più di un metro di distanza, lungo un tempo di permanenza di circa un’ora. In quel caso dieci degli avventori risultarono positivi al Covid-19. Il sistema di contact tracing della Corea del Sud è riuscito a ricostruire uno scenario analogo in un grande focolaio avvenuto in uno Starbucks a Paju in agosto, quando 27 persone sono state infettate da una donna seduta sotto un condizionatore d’aria.
Secondo il già citato Seung, lo studio epidemiologico della Corea del Sud ha aiutato i ricercatori di tutto il mondo a comprendere meglio la diffusione del Coronavirus. “L’ho mostrato alla mia squadra, che traccia i contatti in Massachusetts: sono rimasti a bocca aperta”, ha detto Seung. È complicato ottenere risultati così precisi, che purtroppo ci mostrano senza ombra di dubbio l’elevato coefficiente di rischio di mangiare fuori in un’epoca come questa.