La ristorazione italiana è in crisi, ma ha ampi margini di peggioramento. È una battuta, non è una battuta: alla conclusione, paradossale ma non troppo, si arriva incrociando due o tre dati. Da un lato le persone mangiano sempre più fuori casa, dall’altro i ristoranti chiudono a una velocità mai vista prima. Se si aggiunge che i clienti non amano tornare sempre negli stessi posti, vuol dire che il trend di brutale selezione naturale è destinato a confermarsi, ad acuirsi.
I dati sono quelli forniti dal Rapporto 2024 dell’Osservatorio Ristorazione che è stato presentato alla IV edizione del Forum della Ristorazione, in corso in questi giorni a Padova. Organizzato dall’agenzia RistoratoreTop, vede la presenza di novecento imprenditori del settore, lì per confrontarsi su ciò che è avvenuto nel 2023 e guardare al futuro.
I record nella ristorazione
Dunque nel 2023 ci sono stati due record nella ristorazione in Italia. La spesa alimentare fuori casa, cioè i ristoranti e simili, ha raggiunto gli 89,6 miliardi di euro. Dall’altro lato, hanno cessato l’attività 28.012 imprese nel settore. E questo a dispetto di un altro dato col segno più: le nuove iscrizioni alle Camere di Commercio tornano, dopo gli anni del Covid e della post pandemia, sopra le diecimila unità: +10.319, in ripresa rispetto al triennio precedente. È infatti il saldo tra iscrizioni e cessazioni che rappresenta un record negativo: -17.693 imprese, la perdita peggiore di sempre. In sostanza, per ogni nuovo locale che apre, quasi due ne chiudono.
Secondo i dati di Movimprese, nel 2023 il numero di attività di ristorazione registrate decresce per il terzo anno consecutivo, passando dalle 392.535 del 2022 a 387.583 (-1,2%). In poche parole, più di un ristorante su cento chiude i battenti.
Considerando le imprese registrate, nel 2023 sono 226.296 le attività in grado di cucinare pasti caldi, 109.076 le imprese femminili (il 28,1% del totale), 51.764 le imprese gestite da stranieri, 395 gli stellati. Il 42% è rappresentato da imprese individuali, il 28% da società di capitale e un altro 28% da società di persone.
I clienti dei ristoranti
Un altro dato interessante arriva dal lato della clientela. Stando alla banca dati della web app Plateform, mediamente un italiano prenota al ristorante per 3,85 persone, prevalentemente tra le ore 18 e le 19, e soprattutto nei mesi estivi, a dicembre e in aprile. Il 49% lo fa online (mediamente con 85 ore di anticipo), il 43% resta fedele al telefono (chiamando in media 54 ore prima) e il restante 8% prova ad assicurarsi un posto a tavola entrando fisicamente nel locale.
Ma soprattutto, sono solamente 7 clienti su 100 quelli che tornano più di una volta al mese nei locali di fiducia, mentre i rimanenti 93 tendono a non fidelizzarsi per provare nuove esperienze, e spesso viaggiano: sei su dieci provengono da zone lontane dal ristorante, uno su dieci è straniero.
Le conclusioni
Secondo Lorenzo Ferrari, Presidente dell’Osservatorio Ristorazione, “i due record dell’anno passato restituiscono l’immagine di un settore che vede l’utenza spendere di più in un contesto decisamente competitivo, sfiancato da pandemia, crisi del personale, inflazione e rincari energetici. Ciò significa che i ristoratori si trovano di fronte ad un bivio: evolversi, abbracciando le sfide e adeguandosi ai cambiamenti, oppure estinguersi entro pochi anni”.
Queste considerazioni sono in linea con trend partiti negli anni precedenti: in occasione di analoghi report, l’anno scorso avevamo parlato di darwinismo ristorativo; due anni fa avevamo concluso addirittura che i ristoranti in Italia diminuiscono, ma non abbastanza.
Il ragionamento è semplice. Incrociamo i due principali dati: da un lato abbiamo un settore in crescita, con gente che spende di più per magiare fuori; dall’altro molti locali che aprono ma moltissimi che chiudono. Quindi – al di là della considerazione, che pure è da farsi, sulle troppe imprese che si avviano con leggerezza nel food, una roba che sembra facile e invece ti punisce – se nonostante la maggiore spesa il saldo locali è in negativo, vuol dire che c’è spazio per pochi. E il fatto che la gente non tenda a fidelizzarsi, a tornare negli stessi posti, e ciononostante i locali chiudono, vuol dire che il bisogno reale è ancora più basso di quello attuale.
C’è anche da dire che l’aumento della spesa alimentare, presentato come dato positivo, è anche essere collegato all’aumento dei prezzi, che non rientra in queste analisi ma che è indubitabile, e dovuto a una serie di fattori: chi sa, forse non ci sono più persone che vanno al ristorante, ma le stesse di prima – o anche meno – che però spendono di più.
Infine, una nota di demerito anche a noi, giornalisti gastronomici, che ci accorgiamo della debacle delle imprese che chiudono solo quando andiamo ad analizzare dati generali. Ma che nel lavoro quotidiano – salvo eccezioni – siamo sempre pronti a esaltare l’ultima apertura, mentre raramente diamo notizia di clamorose o affrettate chiusure.