Chi lavora nella ristorazione dovrebbe farlo a basso costo, al limite anche gratis? La cattiva notizia è che l’opinione di Alessandro Borghese non è una tragica eccezione, ma la posizione di default, la linea politica della maggior parte degli chef e degli imprenditori nel settore. Le stesse cose le dicono più o meno tutti gli altri intervistati nel pezzo del Corriere – tranne Antonia Klugman <3 – e nel pezzo-fotocopia uscito qualche giorno dopo su Repubblica. La buona notizia è che la gente non ne può più, e non solo noi scribi che siamo notoriamente una masnada di estremisti, ma anche e soprattutto i lavoratori della ristorazione: che ne hanno le tasche piene, non di soldi, ma di fare turni massacranti per due lire e avere pure il resto, come si dice, cioè essere anche cazziati perché non ringraziano.
Questi due punti emergono molto bene nell’ultimo, ma temo non l’ultimo, caso: un piccolo esempio, che coinvolge una piccola azienda, che negli ultimi giorni ha scatenato una piccola polemica sui social. L’azienda è la Cremeria San Francesco, nota gelateria di Bologna, che sulla sua pagina Facebook pubblica questo annuncio di lavoro.
Dopo l’offerta vera e propria, generica alquanto (non “mandate CV all’indirizzo X”, ma “passate in negozio per informazioni”), la frecciata: “ai miei tempi prima di chiedere ‘quanto prendo?’ Si faceva una prova e poi si parlava di soldi”. La cosa ci mette poco a fare il giro dell’internet, e cominciano ad arrivare le critiche. La prima reazione è difensiva: l’aggiunta di un poscritto in cui ci si vanta di pagare “anche il quarto d’ora” ai dipendenti, di mettere “dei premi in denaro in busta paga, RIPETO IN BUSTA PAGA!” e si conclude con una frase un po’ ambigua, che non sostiene l’argomentazione in maniera impeccabile, diciamo così: “se nel vostro negozio arrivasse un candidato per lavoro, quali sono le domande che gli fareste prima di parlare di soldi?”
Ma, ovviamente, la pagina viene subissata di critiche, il post viene ulteriormente modificato, finché non viene proprio cancellato. Troppo tardi. Ormai ci sono gli screenshot, ma soprattutto ormai è partita la caccia (internet è un posto bellissimo – internet è un posto bruttissimo). E allora viene fuori che la gelateria aveva espresso in passato posizioni abbastanza nette contro il green pass: e non solo dal punto di vista teorico.
Qualcuno addirittura va a scavare nei profili personali dei gestori, scoprendo frasi che sembrano filo putiniane – ma su questo davvero non andrei oltre. La gelateria a quel punto fa il solito post di scuse non-scuse, il consueto “avete frainteso” quindi alla fine a sbagliare sempre voi siete, accennando anche a un contrattacco che sa di minaccia (“commenti al limite della querela”).
Il post riesce a totalizzare un numero ancora maggiore di reazioni e commenti: il disastro comunicativo ormai è avviato, ed è difficile venirne fuori, gli utenti si scatenano anche sotto altri, vecchi post. Mi fermerei qui perché non mi interessa infierire contro una singola azienda: e poi le cose che ci sono da dire le hanno già dette loro.
È un caso paradigmatico, ma pur sempre un caso. La mia intenzione non è fare un danno alla gelateria, anche perché più del danno che si è fatta da sola è difficile. Però appunto: è un caso, ma pur sempre paradigmatico. Emergono una serie di aspetti, su una serie di punti. Brevemente:
- Cultura del lavoro: stiamo inguaiati. L’unica cosa da capire è se si stia tornando indietro, come dicono alcuni, o piuttosto se non sia stato sempre così, per le piccole realtà. La buona notizia, come si diceva all’inizio, è che le persone non ne possono più di uscire “cornute e mazziate”. E non solo gliene cantano quattro sui social ma, si spera, si presentano anche più agguerrite ai colloqui di lavoro. Oppure si rassegnano ad abbandonare il campo.
- Cultura della legalità in generale: peggio mi sento. Non è un caso, per dire, che chi esprime pensieri “giuridicamente scorretti” in ambito lavorativo, poi lo faccia anche rispetto ad altri temi.
- Cultura della comunicazione: qui ci sarebbe un discorso da fare dell’uso spensierato, e spesso suicida, dei canali social, che molte imprese pensano di poter gestire da sé, come se fosse il proprio account privato. Il discorsetto andrebbe fatto a tante imprese, e suonerebbe così: siamo nel 2022, avete mai pensato di prendervi un social media manager, che magari non sia vostro cugino? Ma quelli potrebbero sempre rispondere che poi il SMM lo devono pagare, e allora torniamo punto e da capo.