Durante l’intervista che ho fatto a Eugenio Roncoroni, patron e chef del ristorante Al Mercato in via Sant’Eufemia, a Milano, la parola che mi sono appuntata più spesso è stata “positivo”. Che sentirla di questi tempi – non in ambito medico – è già una notizia. E bisogna esserlo, profondamente, per ridimensionare il proprio ristorante arrivando a due tavoli e quattro clienti.
Per chi non lo conoscesse, il suo è un locale minuscolo. Due piccole sale, una dedicata al ristorante gastronomico, l’altra al burger bar separate dalla cucina a vista, affacciata sulla strada. Una formula sui generis sin dagli albori.
– Eppure, sbaglio o, quando si è cominciato a parlare di riaperture, eri tra gli scettici?
“È vero. Quando hanno iniziato a circolare le prime indicazioni, quattro metri tra i tavoli, no due, anzi uno, meglio uno e mezzo… beh, lì ho pensato che avrei dovuto chiudere. Poi, ho cominciato a ragionare in positivo e in modo creativo.
Prima, al ristorante avevo 5 tavoli più 2 posti al bancone. Riuscivo a fare 10-12 coperti al massimo, a volte forse 15 se c’era una tavolata. Al burger bar avevo 17 posti. Oggi, al ristorante sono rimasti 2 tavoli, dove posso accogliere al massimo 4 clienti, tenendoli distanziati di un metro uno dall’altro, magari 6 se a un tavolo siede una ‘famiglia di 4 conviventi’. Mentre nell’altra sala ho tolto tutto, organizzato il mio ufficio e lasciato un solo tavolino per i fortunati che lo trovano libero e possono accomodarsi per hamburger e patatine”.
– Detta così, il ridimensionamento sembra pesante. Come quadrano i conti?
“Da un lato grazie al delivery, che ho sempre fatto, e al take away che ho avviato durante la prima fase del lockdown con due menu: gastronomico e street food. Delivery e asporto al momento rappresentano il 70% degli introiti”.
– Che, dal 18 maggio, contano anche quelli del ristorante. In che modo lo hai riaperto?
“Quando ho deciso di ripartire, ho dovuto dimezzare il personale. Da 4 che eravamo in brigata, più una pasticciera, sono rimasto da solo con aiuto cuoco, lavapiatti e Angelo Gunness in sala, dove comunque sono molto presente anche io. Ma soprattutto, ho lavorato sul menu”.
– Il tuo fine dining prevedeva una carta con una dozzina di proposte tra piatti principali e primi, più i classici de Al Mercato e il menu milanese introdotto a settembre.
“Era un menu rigido, avevo bisogno di un sacco di materie prime e di lavorazioni, impensabile con i numeri odierni, sia di personale sia di clienti. Così, ho deciso di liberarmi dalle catene della carta tradizionale”.
Oggi, è possibile scegliere gli ingredienti principali tra carne, pesce e primi, che hanno indicato un range di prezzo, variabile in base alla complessità della ricetta e agli ingredienti usati in abbinamento. Perché, come recita il menu, “tutte le pietanze verranno servite con verdure e salse decisi al momento secondo la disponibilità del mercato e i gusti del cliente”.
– Insomma, chi siede Al Mercato si deve affidare a te, come nell’omakase giapponese…
“È vero. L’ispirazione è quella dei sushi bar del Sol Levante. È come se facessi un menu di soli fuori carta. E, se qualcosa finisce, semplicemente non la propongo”.
– Qual è lo schema organizzativo?
“Tengo scorte limitate. Al mattino faccio la spesa del fresco, prendo poche cose, scelte tra quel che offrono i miei fornitori. Poi, in cucina gioco molto con gli ingredienti, uso tante verdure, invento”.
– E così i conti tornano?
“Con questi interventi, tra personale, menu e riduzione della cantina (che conta 13 referenze, ndr) ho abbattuto in costi del 50%. E sono riuscito a tenere i prezzi in linea con quelli di prima. Anzi, forse oggi si spende anche qualcosa di meno. La clientela ha reagito subito in modo molto positivo. E sembra addirittura che i margini siano più alti”.
– Pro e contro di questa seconda vita Al Mercato?
“Contro: devo essere presente. Se per partecipare a un evento o per qualunque altro motivo non potessi esserci, il ristorante non aprirebbe. Pro: la cucina espressa è più istintiva. Io mi diverto. Il cliente anche. E questo è decisamente positivo”.
Probabilmente non siamo di fronte alla formula magica per uscire dalla crisi della ristorazione. Ma la via scelta Al Mercato (possibile in parte proprio grazie alle peculiarità del posto e alla cifra dello chef) esprime bene come sia possibile semplificare la cucina senza vendere l’anima (gastronomica) al diavolo, fatti salvi qualità e fine dining.
Oggi, il take away e il delivery funzionano a pranzo e a cena, il ristorante solo la sera e dalle 18.30 è possibile fare l’aperitivo sui due mini banchetti esterni.