Ci sono attività che la crisi (economica) da Coronavirus la patiranno più di altri, e di sicuro, fra questi, ci sono i ristoranti, chiusi fino a data da destinarsi. Sebbene non ci siano ancora disposizioni ufficiali, è probabile che saranno fra gli ultimi a riaprire, nell’ottica di un graduale ritorno alla vita “normale” dopo l’isolamento. Nel frattempo per molti imprenditori e chef il delivery sembra la soluzione, o quantomeno il compromesso giusto.
Sia chiaro, tutti contano sugli ammortizzatori sociali messi in campo dal Governo, ma un piccolo imprenditore non può pensare al futuro contando solo su quello e, ovviamente, i piatti consegnati a domicilio certo non possono sopperire al normale flusso di entrate e uscite, né dare lavoro a un’intera brigata. Aggiungeteci che ci sono ristoratori che hanno inaugurato le loro attività magari solo pochi mesi (o poche settimane) fa, e ora non hanno modo di ripagare i debiti che presumibilmente hanno accumulato per progettare l’avvio.
Ebbene, intorno all’opportunità di consegnare cibo a domicilio (una porta lasciata aperta dal premier Giuseppe Conte), si è creato un dibattito. Salvare il salvabile, magari strutturando un servizio che nei prossimi mesi potrebbe diventare un business valido come rete di sicurezza? O sarebbe meglio fermarsi del tutto, evitando di abbassare l'”alta ristorazione” ai prezzi e alle dinamiche del mercato delle consegne a domicilio?
Addattarsi al delivery o fermarsi, per non “tirare a campare”
Tra coloro che hanno reinventato la propria proposta (d’ispirazione gourmet, sia chiaro) per il delivery, c’è Razzo, una delle nuove realtà ristorative che a Torino si è fatta più notare quest’anno (e che anche noi abbiamo apprezzato). Fin dall’inizio dell’isolamento, Razzo ha attivato un servizio di consegna a domicilio del suo menu, con risultati incoraggianti.
Tra i secondi, ovvero i ristoratori che guardano con sospetto al delivery, c’è Christian Mandura, giovane chef torinese che giusto un anno fa ha esordito con un progetto ambizioso, il suo Unforgattable, un ristorante con una manciata di posti a sedere al bancone e lo chef che si dialoga con il suo pubblico mentre serve i suoi piatti (qui eravamo stati il giorno stesso della tanto attesa apertura).
Mandura, qualche giorno fa, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post molto discusso (scopriamo solo ora, anche dai ragazzi di Razzo) in cui paventava una nuova crisi della ristorazione, simile a quella di 15 anni fa, “quando la ristorazione italiana iniziò a fare la guerra ai ristoranti cinesi, percorrendo quella che poteva sembrare la strada più semplice”. “Vedo che di fronte a questo disastroso periodo la ristorazione si piega nuovamente, iniziando a proporre improbabili delivery che genereranno improbabili utili e pessima qualità”, scrive Mandura, “Ed oggi come ieri queste stupide scelte verranno appoggiate e pubblicizzate dai soliti giornalisti che sui pranzi a dieci euro ci hanno creato una carriera”.
Un post che fa riflettere e, al contempo, non ha mancato di suscitare polemiche. “Sì, ma solo da chi non è capace di leggerlo”, ci dice Mandura, “perché in quel post non c’è nessun tipo di polemica. Non è un pensiero negativo rispetto a chi fa delivery, è solo l’espressione di alcuni interrogativi che mi pongo”.
Così noi abbiamo pensato di sentirli entrambi, questi due punti di vista, intervistando Davide Di Stefano, proprietario di Razzo, e Christian Mandura, chef di Unforgettable.
Razzo VS Unforgettable: l’intervista doppia
– Qual è la vostra situazione attuale?
Davide di Stefano, Razzo: “Ho aperto Razzo un anno fa, il 31 gennaio 2019, e attualmente ho quattro dipendenti: per tre di loro ho fatto richiesta per la cassa integrazione. Al momento siamo operativi io e Nicolò Giugni, il cuoco”.
Christian Mandura, Unforgettable: “Ho aperto Unforgattable esattamente un anno fa. Sono dipendente del ristorante, e attualmente sono in cassa integrazione”.
– La differenza tra chi è imprenditore e chi è dipendente può cambiare il punto di vista rispetto alla questione delivery?
Davide Di Stefano: “Sicuramente! Se fossi un dipendente sarei più “rilassato”, perché sono un po’ più tutelato. I miei ragazzi hanno ovviamente le loro spese personali, però non hanno la mole di fatture e di affitti che ha un’attività commerciale. Chi ha un’impresa ha le spalle un po’ più pesanti in questo momento, e deve pensare a una soluzione per pagare i conti almeno in parte”.
Christian Mandura: “Non il mio. Io non sono solo dipendente di Unforgettable, ho anche un ristorante di proprietà a Chieri, che attualmente è ovviamente chiuso, ma non mi metto a fare delivery. La differenza non è se sei imprenditore o se sei dipendente, la differenza è nelle persone”.
– Quando vi siete posti la questione delivery?
Davide Di Stefano: “Abbiamo deciso subito, appena uscito il decreto sulla chiusura totale, e nel giro di due giorni eravamo operativi. A oggi posso dire di essere contento di come sta andando, tutto sommato. Ho una bella clientela che sta rispondendo bene, la gente è contenta, la temperatura dei piatti rimane corretta. Ovviamente ho dovuto riadattare un po’ il menu per le nuove esigenze di questo tipo di mercato”.
Christian Mandura: “Ho visto tanti che si sono lanciati sul delivery. Un mattino, alle 9, ho iniziato a fare una riflessione: volevo inviarla alle persone con cui mi confronto di solito, voleva essere un ragionamento costruttivo. Poi un po’ per noia ho deciso di pubblicarlo su Facebook, non l’avessi mai fatto. Chi ci ha visto un pensiero negativo rispetto a chi fa delivery per sopravvivenza, non ha letto quello che ho scritto. Quel che ho detto è: facciamo attenzione, perché oggi quel mercato in Italia propone per lo più prezzi molto bassi (10-15 euro), e quindi chi si inserisce deve essere concorrenziale, abbassando i prezzi e dunque la qualità. Io rispetto la scelta di chi oggi fa la delivery, ma mi permetto di farmi delle domande”.
– Si può fare delivery di qualità?
Davide Di Stefano: “Ho letto la riflessione di Christian Mandura, e alcune cose le condivido anche, ma altre no. Non è vero che non si può fare un delivery di qualità, basta farla pagare, io non ho piatti a meno di 8 euro. I miei prodotti non li ho cambiati, non vado nel discount, uso le stesse materie prime di prima”.
Christian Mandura: “Non in questi termini. Il delivery deve essere una scelta, non un’improvvisazione. Un delivery di qualità è possibile, sicuramente, esempi ce ne sono. Ma sono realtà che lo fanno come scelta, che sono partite con quel progetto lì. Non può essere una cosa che tu accusi e accetti, deve nascere da una progettualità, perché allora la strutturerai in maniera consapevole, etica, economicamente sostenibile”.
– Ma c’è un reale guadagno in un’operazione di delivery gourmet?
Davide Di Stefano: “Certamente guadagno meno, ma con le varie misure e agevolazioni (la cassa integrazione, un accordo con la proprietà per l’affitto) ho anche meno costi fissi. In più ho anche meno spese su un singolo piatto. Non conosco i numeri di chi fa delivery da sempre, ma noi nel giro di quindici giorni da quando abbiamo iniziato abbiamo fatto 300 piatti, con una media di 11-12 euro a piatto”.
Christian Mandura: “No. Con questo tipo di delivery non ti paghi nulla, non puoi avere margini. Se al ristorante fai pagare un menu a 45 e lo metti in delivery a 35, dove sono i margini? Soprattutto se hai fatto meno coperti. È non è vero che sono meglio quei pochi di nulla. Non è sostenibile, è meglio se stai a casa e rifletti”.
– Qual è l’alternativa al delivery?
Davide Di Stefano: “L’alternativa era stare fermi con guadagno zero e i conti da pagare. Non nascondo che l’abbiamo fatto anche per rimanere impegnati: non siamo abituati a stare a casa e ci farebbe male, ovviamente stiamo lavorando molto meno ma almeno non stiamo fermi”.
Christian Mandura: “Se questo sistema non ha margini, l’alternativa a oggi è semplicemente stare fermi, e usare questo tempo per pensare, studiare, ricostruire”.
– E per il dopo?
Davide Di Stefano: “L’idea è che io stia lavorando su un progetto che durerà almeno sei mesi. È difficile che riapriremo prima o quantomeno non a pieno regime. Perciò arriverà un momento in cui più o meno tutti dovranno fare delivery, e anche a breve. Entro fine aprile tutti lo faranno, quasi a qualsiasi livello. E noi a quel punto avremo già sulle spalle 50 giorni di lavoro fatto, incasso, esperienza. Certo, non sopravvivremo con il solo delivery, non siamo nati per questo, ma almeno abbiamo un cuscinetto che ci può salvare alla riapertura. Ricominciare dopo tanti mesi di chiusura altrimenti è molto difficile.”.
Christian Mandura: “Ognuno si reinventerà a suo modo: utilizziamo questo tempo per ripensarci, ma non prendiamo scorciatoie: il delivery in questo momento è la strada più facile. Gli errori di 15 anni fa li abbiamo pagati tutti, e oggi possiamo fare scelte meno avventate. Le scelte che facciamo possono essere frutto di ragionamenti, e non solamente di strategie per tirare a campare. Non dobbiamo lasciarci prendere dal panico, perché altrimenti tra cinque anni ci troviamo a competere con i fast food e i ristoranti etnici, perché sono loro i leader del delivery. Vogliamo davvero abbassare la nostra cucina per entrare in questo mercato che, come tutti, impone le sue regole? Così andiamo a dare vita a una filiera che predilige la quantità alla qualità”.
– Il delivery un business per il futuro?
Davide Di Stefano: “Francamente non lo escludo. È un campo relativamente nuovo, io non l’ho mai fatto nella mia vita non avevo in mente di farlo, ho provato ad appoggiarmi a qualche piattaforma ma lì è vero che non possiamo fare qualità, perciò le consegne le facciamo direttamente noi, il che significa che abbiamo un massimo di consegne fattibili piuttosto basso. Quando si potrà tornare a lavorare come prima il delivery di Razzo chiuderà. Certo non posso escludere che si aprirà una succursale dedicata solo a quello, ma non entrambe le cose nella stessa location. La mia cucina deve essere incentrata sul cliente che è seduto a tavola. In questo momento comunque non lo sto vedendo come business, ma è solo l’unica opportunità per ripartire con più velocità quando si potrà ripartire”.
Christian Mandura: “Non per me, il mio progetto è nato con una natura diversa. È abbastanza chiaro che la ristorazione così come è oggi è morta. C’è chi intraprenderà la strada del delivery e chi deciderà di far servire i suoi camerieri con la mascherina e i guanti. Io per farmi servire così me ne sto a casa, e se devo scegliere un mondo della ristorazione che non mi soddisfa preferisco tornare alla terra, alle materie prime”.