Non gli piace la parola “coprifuoco”, ma di fatto il governo di Giuseppe Conte ne ha appena decretato uno, seppure in versione soft: ristoranti chiusi alle 18 significa, di fatto, chiudere in casa la gente, seppur non con metodi coercitivi.
E significa pure decretare la probabile fine di un settore che, vale la pena di ricordarlo ancora, rappresenta una fetta importante del Pil italiano (con un giro di affari di 86 miliardi di euro nel 2019), e un traino per altri settori, come quello turistico, visto che parliamo di un elemento distintivo dell’eccellenza di questo Paese. Insomma, capiamoci: la ristorazione non è solo gozzovigliare con gli amici e prendersi una pausa dalla routine quotidiana, come farebbe intendere Conte quando parla di “piccoli sacrifici” che ognuno di noi deve fare.
Noi non abbiamo soluzioni e, per fortuna, non è compito nostro trovarle. Possiamo solo immaginare quanto sia difficile, in un momento storico così incredibilmente delicato, mettere sui piatti della bilancia la tenuta economica e la tenuta del sistema sanitario di un Paese, cercando di fare meno danni possibile. E quel che vediamo intorno a noi ci spinge a credere che forse una serie di decisioni drastiche e impopolari siano necessarie: tutta l’Europa, perfino buona parte del mondo, si muove in questo senso, tra lockdown localizzati, coprifuoco e restrizioni alle attività commerciali.
Quindi forse hanno ragione loro, forse la chiusura anticipata di bar e ristoranti era in qualche modo inevitabile, seppur magari rimandabile. Ma, prima di arrivare a tanto, prima di mettere in ginocchio un settore – quello enogastronomico – che è da sempre il fiore all’occhiello dell’Italia, avremmo voluto vedere una serie di altre cose che, indipendentemente dalla responsabilità comunale, regionale e nazionale, forse ci avrebbero aiutato ad accogliere le nuove misure non dico con più serenità, ma almeno con maggiore rassegnazione.
Più precisione e trasparenza sui dati
Il Governo ritiene, evidentemente, che sia dopo le 18 che avvengono le situazioni più ad alto rischio di contagio. Può essere elementare immaginarlo, se si pensa a una certa movida, un po’ meno se si pensa a un ristorante in cui si mantiene il distanziamento. Se il presidente del Consiglio ha deciso di trattare le due situazioni con lo stesso metodo, allora dovrebbe spiegarci perché: ci sono dati che dimostrano che è all’ora di cena che si concentrano i contagi? Ci sono dati ed evidenze sui focolai nei ristoranti (o nelle palestre, o nei teatri)? Non è superfluo saperlo, perché questi provvedimenti così duri calati dall’alto e rispettati sulla fiducia, evidentemente, incominciano a stancare le persone.
Più lungimiranza nelle decisioni
È ovvio che una situazione di emergenza, per sua natura incredibilmente straordinaria come questa, rende molto difficile una pianificazione a lungo termine. Tuttavia, ci si aspetta che i “piani alti” facciano meglio di così, permettendo il più possibile alle persone di prepararsi, di tutelarsi, di lavorare per mettere in salvo il salvabile. È stato chiesto ai ristoratori di sostenere investimenti anche ingenti per sanificare e mettere in sicurezza i loro locali. È stato permesso di investire sui dehors, magari coperti (per quei pochi che hanno voluto prepararsi all’inverno). Ora gli si dice che non si sa cosa succederà a Natale, né nel periodo da qui ad allora. Purtroppo è così che si uccide il commercio, più ancora che con le chiusure.
Maggiori controlli sugli assembramenti
Le abbiamo viste tutte, le piazze piene di gente all’ora dell’aperitivo e fino a tarda notte. Ci siamo capitati un po’ tutti in ristoranti che non chiedevano le generalità, non misuravano la temperatura, non avevano distanziato a sufficienza i tavoli. Come ha detto giustamente Bruno Vespa, chiudere tutti indistintamente, senza tenere conto del fatto che c’è chi ha rispettato le regole di sicurezza e chi se n’è fregato in nome del guadagno “qui e ora”, significa innanzitutto ammettere di non aver saputo vigilare.
Più collaborazione tra i ristoratori
E qui, signore e signori ristoratori, arriviamo a quel mea culpa che forse dovreste fare e che – se ve lo diciamo – vi fa tanto arrabbiare. Perché, è inutile negarlo, in questi mesi , a fronte di tanti che hanno fatto sacrifici e rispettato le regole, c’è anche chi se n’è fregato, chi ha pensato di essere più furbo degli altri, chi ha trasformato i ristoranti in sale danzanti, chi ha chiuso a mezzanotte per aprire a mezzanotte e un quarto. Ecco. La chiusura alle 18, alla fine, è anche un po’ colpa loro, ne converrete.
Più attenzione alle situazioni di difficoltà (e ai veri assembramenti)
C’è da chiedersi una sola cosa: cosa hanno fatto (a tutti i livelli) le istituzioni per impedire il disastro economico? Hanno potenziato il servizio di trasporto pubblico per evitare il sovraffollamento sui mezzi? Hanno lavorato sulla necessità di più personale sanitario, di più attrezzature sanitarie, di più insegnanti che garantiscano un servizio scolastico più efficiente e più sicuro per tutti? Perché se è certo che stiamo provando a fermare il fiume a mani nude, è altrettanto vero che il contagio si doveva provare a contenere prima, non dopo. E sicuramente non solo nei ristoranti, nei teatri e nelle palestre.
Sono cinque cose a cui, se avessimo risposta, forse potremmo vedere il tutto con un’ottica diversa. Farcene una ragione, per dirla spicciola.
Oggi, in questa situazione, la preoccupazione lascia il posto alla rabbia, all’incredulità, e anche ai dubbi sull’efficacia delle misure prese. Per dirne una: se riduco gli orari di un servizio, è logico pensare che avrò più affluenza in un lasso di tempo più ristretto. Dovremmo quindi tutti precipitarci a pranzo o a merenda, non volendo rinunciare ai ristoranti ma non potendoci cenare? Anche perché, da che mondo e mondo, caro Giuseppe Conte, le proibizioni non portano a nulla se non alla disobbedienza (e all’illegalità).