Che la ristorazione sarà uno dei settori più colpiti dalla crisi economica che succederà alla pandemia del Coronavirus è un dato di fatto; proprio per la natura aggregativa dei ristoranti, fa specie vederli in un possibile elenco di riaperture, in “Fase 2“. Le titubanze sono molte: oggi facciamo parlare Pietro Caroli di Trippa Milano, non proprio un locale con pochi posti a sedere.
Una premessa, però: ora si fa un gran parlare della ristorazione nella cosiddetta “Fase 2”, con eventuali e inevitabili misure di distanziamento (tra i tavoli, tra il personale, tra i commensali, magari divisi da improbabili pareti di plexiglass), cercando di capire che ne sarà dei nostri ristoranti, e magari buttando un occhio a quel che succede in Cina. Lì, la Fase 2 è in parte già arrivata, e per la ristorazione significa sostanzialmente coperti distanziati, prenotazioni limitate a singoli nuclei familiari, generalità e temperatura dei clienti prese all’ingresso.
Condizioni che, in linea di massima, hanno fatto rizzare i capelli in testa ai ristoratori nostrani, che chiedono a gran voce di passare direttamente alla “Fase 3”, pazientando ancora un poco e magari usufruendo nel frattempo della sussistenza dello Stato.
La verità, però, è che stiamo parlando del nulla: non c’è alcuna certezza su tempi e modalità di riapertura dei ristoranti, in nessuna delle fasi ipotizzate. Ed è soprattutto questo che preoccupa Pietro Caroli, proprietario del celebre Trippa a Milano, “nuova trattoria” che ha cambiato il volto della ristorazione milanese e non. Lo abbiamo intervistato.
“In questo periodo siamo sommersi da milioni di pensieri e da progetti che iniziano e inevitabilmente si interrompono a metà strada, quando si scontrano con realtà e incertezze del futuro”, ci dice Caroli al telefono. “La situazione è difficile, ma è resa ancor più cupa dalla mancanza di risposte tempestive e di sicurezze sul futuro. Oggi ho pagato l’affitto del mese per il locale, e se a marzo ci è stato concesso il 60% come credito d’imposta, per aprile ancora non si sa. È stato lasciato tutto alla negoziazione privata, in un braccio di ferro tra poveri. Da un lato c’è chi non vuole rinunciare alla propria rendita, dall’altro i titolari delle aziende, che incassano zero da più di un mese e mezzo e si trovano a disporre di un locale con intenti diversi da quelli per cui si era stipulato il contratto. Da un punto di vista legale non abbiamo possibilità se non quelle di recedere dal contratto, e da un punto di vista istituzionale siamo in una fase di stallo che viene lasciata colpevolmente nelle nostre mani”.
– Qual è attualmente la situazione di Trippa?
“Siamo fermi, totalmente. Abbiamo fatto alcune valutazioni, come l’opzione di fare delivery, anche solo per una vicinanza con i nostri clienti che ce lo chiedono in continuazione. Però, in condivisione con il mio socio Diego, abbiamo lasciato stare, perché abbiamo il timore di non riuscire a fare le cose come vorremmo. Un delivery come lo vorremmo noi implica alti costi a livello organizzativo, e non so fino a che punto possano essere ripagati. Senza contare che non è il nostro lavoro, sarebbe come chiedere a un calciatore, visto che il campionato è sospeso, di darsi alla pallanuoto”.
– Quindi aspettate che i tempi siano maturi per una riapertura?
“Sì, si spera che questa situazione abbia un termine, e proviamo a tenere duro, anche perché crediamo che non valga la pena fare investimenti su un futuro che forse non è il futuro. Tutti ci auguriamo che fra qualche mese questa situazione sia solo un brutto ricordo”.
– Avete dipendenti?
“Sì, sono nove. Tutti in cassa integrazione”.
– Proviamo a quantificare le perdite di questa situazione?
“Guarda, per noi il calcolo è abbastanza facile da fare, se parliamo di mancato incasso: stiamo perdendo circa 70.000 euro al mese”.
– Quindi, visto che un ritorno alla normalità non è previsto – nella migliore delle ipotesi – prima di settembre, si parla di almeno sette mesi di stop. Totale: 500 mila euro di incassi mancati. Si può sopravvivere?
“Già, parliamo praticamente di oltre la metà degli incassi annui. Perfino sopravvivere è una parola grossa, ma si può provare a tenere duro e riaprire quando sarà il momento. Se ci riusciremo, sarà solo grazie a quello che abbiamo fatto negli anni precedenti. Fino a ora abbiamo sempre avuto una gestione economica molto oculata e cauta, e solo questo ci permette di tentare di riaprire. Per puro caso non siamo partiti con nuove attività e nuovi progetti; se avessimo cavalcato l’onda con nuove idee saremmo molto più in difficoltà”.
– E chi non ha avuto lo stesso atteggiamento prudente?
“Per loro il problema si fa molto più serio, e capisco la necessità di fare scelte diverse per tamponare le perdite. Per Fratelli Torcinelli (l’attività di cucina pugliese avviata da Pietro, ndr), per esempio, stiamo pensando al delivery, anche perché lì lo abbiamo sempre fatto. Resta comunque il punto interrogativo, perché è un servizio che ha marginalità diverse, e in cui oggi c’è anche una concorrenza diversa rispetto a qualche mese fa. Ognuno si fa i propri conti, ma alla lunga potrebbe anche diventare più dispendioso a fronte di ricavi bassi”.
– Quindi aspettiamo. Che cosa? La Fase 2?
“Guarda, io ho ovviamente un’opinione influenzata dalla tipologia di ristorante che abbiamo e dal genere di ristorazione che facciamo. Se parliamo di Fase 2, senza scendere nei tecnicismi, significa innanzitutto vedere minimizzata o annullata la convivialità. Per noi vorrebbe dire una riduzione significativa dei coperti. Meno della metà probabilmente, con conseguenze importanti: riduzione dello staff, riduzione degli incassi e una serie di attività collaterali che ci metterebbero in difficoltà nel far quadrare i conti. Ci sono ristoranti che magari avevano già tavoli distanziati o grosse sale, e faranno meno fatica ad adattarsi alle nuove norme, ma per noi è quasi impossibile ripensarci in questo senso. Senza entrare nel merito della questione se i clienti vorranno venire lo stesso, perché c’è anche quel problema lì, che influisce tantissimo”.
– Pensi che la clientela sarebbe frenata in questa ipotetica Fase 2?
“Io parlo a titolo assolutamente personale: a queste condizioni tu andresti al ristorante? Io francamente no. Credo possa essere un’opinione condivisa. Ho sempre un po’ di timore ad espormi, ma io francamente non riesco a pensare a qualcuno che possa reputare bello o divertente passare una serata separati da un plexiglass. A questo punto invito i miei amici a casa, se ho l’alternativa. Anche perché così si lanciano messaggi contrastanti: vai al ristorante, ma occhio che potresti ammalarti”.
– Quindi meglio aspettare la Fase 3?
“Per quanto ci riguarda, purtroppo sì. Io preferirei un prolungamento nel lockdown finché non siamo sicuri di poter riaprire alla stesse condizioni o quasi di prima. Quindi magari rendiamo facoltativa la riapertura in Fase 2, se questo significa rinunciare ad aiuti e ammortizzatori sociali: ognuno decida cosa preferisce fare. Ma la verità è che la cosa di cui tutti avremmo bisogno davvero è più chiarezza anche su ciò a cui si andrà incontro, anche per valutare consapevolmente se sia meglio riaprire nella Fase 2 o aspettare la Fase 3. In questo momento è impossibile fare programmi seri”.
– Cioè?
“Significa che, attualmente siamo solo spettatori, senza alcuna informazione ufficiale. E invece abbiamo necessità di averle, anche per poterci adeguare per tempo in in maniera organizzativa e strutturale. Fino a quando non mettono nero su bianco le condizioni di apertura di una Fase 2 noi non abbiamo modo di organizzarci ”.
– Facciamo un esempio?
“I famosi divisori in plexiglass: dove li trovo? Quanto costano? Quando mi arrivano se li ordino? Come si puliscono, o come si adattano ai tavoli? È impensabile che me lo dicano oggi e io sia pronto ad aprire domani. Ho bisogno di tempo per riorganizzarmi, per valutare costi e ricavi. Pensiamo al gel per le mani: all’inizio di questa situazione volevamo metterlo ovunque nei nostri locali, a disposizione dei clienti, ma era praticamente irreperibile”.