La Calabria apre bar e ristoranti: lo fa prima di tutti, all’improvviso, in barba al calendario ipotizzato dal governo. Lo fa con un’ordinanza che, a partire da oggi, permette di riaprire un po’ tutti i locali pubblici, con il servizio ai tavoli all’aperto, purché si tengano presenti alcune misure “anti-contagio”.
Dunque, da oggi, la Calabria è la prima regione italiana ufficialmente passata alla Fase 2. Ma a guardar bene, è davvero così? Non ne è per niente convinto Nino Rossi, chef del ristorante Qafiz, una stella Michelin a Santa Cristina d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, che senza mezzi termini definisce il provvedimento del presidente Jole Santelli “una pazzia”. “Nessuno ha riaperto oggi, e questo dimostra l’assurdità dell’ordinanza”, ci dice al telefono. “Può aver aperto giusto qualche impavido che non ha letto bene l’ordinanza”.
– E perché, scusa?
“Perché se un ristoratore legge l’ordinanza e si fa i calcoli opportuni, si rende conto di non poter ripartire dalla sera alla mattina. Io sarei profondamente invidioso di un collega che fosse già stato pronto ieri sera, vorrebbe dire che ho sbagliato tutto nella mia professione”.
– Cos’ha che non va quest’ordinanza?
“Sia chiaro che non voglio farne una questione politica, non lo è. Schierarmi a livello politico significa sminuirmi come imprenditore, i miei dubbi sono reali, non ideologici. Qui bisogna analizzare come sono andate le cose. È vero, la nostra è una regione con contagi minimi, e una riapertura graduale, certo, potrebbe essere possibile. Ma per il tipo di ristorazione che facciamo noi, per l’attenzione che abbiamo verso i nostri clienti, abbiamo bisogno di una programmazione, di strategie serie, non di riaprire così, dall’oggi al domani”.
– E di cosa avreste bisogno, esattamente?
“Di dialogo, innanzitutto. Un settore colpito come il nostro dovrebbe essere prima di tutto ascoltato dalle istituzioni: se fosse stato così, questa apertura non ci sarebbe stata. Per dire, va benissimo avere i tavoli all’aperto, ma sono molte le cose da prendere in considerazione. Le spese per le mascherine, ad esempio, ammonterebbero a diverse centinaia di euro al mese. Poi ci sono le spese per i termoscanner, per la sanificazione continua dell’ambiente di lavoro, la riduzione dei coperti. E poi la gestione del tutto: cosa faccio, mi metto a misurare la febbre al cliente e se ha 37.5 non lo faccio sedere? Ma cosa sono, sua madre?”.
– Quando e come ipotizzate di ripartire, voi ristoratori?
“Noi non riapriremo finché non ci saranno innanzitutto le condizioni per mettere totalmente in sicurezza i nostri clienti. Non per essere allarmisti, ma bisogna andarci cauti, perché viviamo in un posto che non ha ospedali e terapie intensive: se si sviluppa un focolaio fanno prima a buttarci a mare”.
– E di quanto tempo avreste bisogno?
“Non saprei esattamente, ma capisci che io faccio parte di un comune 600 abitanti, di cui per la maggior parte anziani e il resto braccianti agricoli? Sono in un paesino sperduto sull’Aspromonte, che riapro a fare se prima non si aprono gli spostamenti da comune a comune?”
– Insomma, una gradualità diversa nella ripartenza.
“Certo. Io voglio ripartire, ma voglio ripartire in sicurezza. Noi possiamo anche prevedere degli investimenti, comprare il termoscanner e tutto quello che serve, ma non possiamo poi chiudere di nuovo dopo dieci giorni perché avevamo sottovalutato il problema”.
– Nel frattempo voi vi siete dati al delivery: come sta andando?
“Molto bene. Noi serviamo solo menu degustazione e qualche fuori carta di alcuni chef amici (come Giancarlo Perbellini). Abbiamo fatto in un mese cento menu, che per il posto dove siamo è parecchio”.
– Dunque il delivery stellato è possibile?
“Assolutamente. Abbiamo un sacco di clienti affezionati e abbiamo le conoscenze necessarie per fare in modo che loro fruiscano del piatto al massimo. Io non sono un grande fan del menu a domicilio da assemblare, credo che chi ordina a casa non abbia voglia di mettersi a cucinare. Noi portiamo il piatto con un condimento da shakerare e aggiungere”.
– Come vedi oggi il futuro della ristorazione?
“È legato a doppio filo alla ripresa economica. Sicuramente ci sarà un po’ di insicurezza nei clienti futuri, e anche noi dobbiamo cercare di occupare nuove fette di mercato, per accontentare anche chi vuole consumare un nostro pasto a casa propria. Parlo di delivery, ma anche di una forma di catering leggero, cene private ad hoc. Credo che d’ora in avanti non dobbiamo più uscire dalle case dei clienti, e la ripartenza della ristorazione tradizionale può essere affiancata da queste nuove formule: il fine dining dovrà essere doppiamente orientato, un po’ in loco un po’ fuori”.
– Quindi voi manterrete il servizio a domicilio anche dopo?
“Io lo manterrò per sempre. Ancora oggi, in questo momento, sto ricevendo ordini per il delivery, un’altra prova che la gente, indipendentemente dall’ordinanza, non è pronta per uscire e andare al ristorante”.