È significativo che per arrivare a Venissa, ristorante una Stella Michelin – e stella verde – guidato da Chiara Pavan e Francesco Brutto, il tempo faccia parte dell’“esperienza”, come amano dire gli addetti ai lavori. Arrivare a Mazzorbo, isola tra le meno frequentate della laguna di Venezia, collegata alla più nota e visitata Burano grazie ad un ponte, significa mettere in conto un paio d’ore di navigazione (vaporetti del servizio pubblico) partendo da Piazzale Roma.
Probabilmente non esistono altri ristoranti stellati raggiungibili nello stesso modo ed è particolarmente ironico (nel senso pirandelliano) osservare la discrepanza di abbigliamento, a bordo della linea 12 – l’unica che passa di qui – tra i turisti “normali” e i clienti che varcheranno la soglia del resort: i vaporetti veneziani però sono democratici e azzerano le differenze di classe, prevedendo che chi mangi un piatto di bigoli in salsa o un trancio di pizza in osteria se ne stia schiacciato a bordo esattamente come chi assaggerà una decina di portate stellate.
Una volta approdati, anche per chi è della zona, l’impressione è davvero quella di giungere in un luogo che, nel bene e nel male (provate a venirci d’inverno) è una parentesi.
La storia
Di Venissa si è scritto molto. Per chi non ne conoscesse la storia, qualche dato essenziale: wine resort, comprende due diverse offerte culinarie, il Ristorante Venissa appunto e l’Osteria Contemporanea. La tenuta si trova all’interno di una vigna murata aperta al pubblico, di origini medioevali con campanile trecentesco. A firmare ristrutturazione, rinascita della vigna e creazione di un doppio spazio gastronomico è stato Gianluca Bisol, noto produttore di prosecco, che nel 2006 dà vita ad un impianto vitato che porta al recupero/coltivazione dell’uva Dorona (varietà autoctona) ed alla nascita di Venissa, vino che è la vera punta di diamante della produzione vinicola. Oltre alla vigna, la tenuta comprende anche un orto, gestito sia dal ristorante sia da un gruppo di pensionati di Burano, forti di pratiche e conoscenze agricole e dei terreni. In cucina, a raccogliere il testimone dopo Paola Budel e Antonia Klugmann è ora la coppia – nella vita e nel lavoro – formata da Chiara Pavan e Francesco Brutto, veronese la prima, trevigiano il secondo.
La cucina
A mo’ di dichiarazione programmatica, Pavan e Brutto definiscono la loro una “cucina ambientale”, aggettivo che si presta a diversi livelli di lettura: i piatti, in primo luogo e ovviamente, descrivono l’ambiente circostante; c’è poi, altrettanto ovviamente, il volgersi all’ambiente come fonte di approvvigionamento – l’utilizzo di ingredienti e materie prime eminentemente lagunari va esattamente in questa direzione -; ma ci sono poi due ulteriori passaggi, l’uno collegato all’altro: l’adottare una sensibilità verso il contesto circostante basata su osservazione, rispetto, quasi simbiosi, e il compiere poi un passo in più, che porta a riflettere sull’impronta che si lascia sul territorio. Come in altri contesti la cucina è un’introduzione ad un pensiero – evitiamo volutamente di utilizzare il termine “filosofia”, che in ambito gastronomico comincia a mostrare la corda – così anche qui è prima di tutto un ragionamento sul contemporaneo e quindi sul futuro dell’ecosistema lagunare. Quasi un laboratorio in costante evoluzione, Venissa è un contesto di osservazione privilegiato sulla laguna e le sue trasformazioni, nel tentativo di arginarne il venir meno di un equilibrio già compromesso o quantomeno di risvegliare attenzione e coscienze.
Si spiegano allora – anche – in questo modo determinate scelte: quella di utilizzare prevalentemente vegetali e proteine alternative, quella di escludere la carne, quella di concentrarsi sull’impiego di determinate categorie di pesci. L’impressione complessiva è che la direzione “verde” impressa al menu solo in parte risponda a trend e mode: se foraging, ristoranti con orti, carte sostenibili e resilienti sono ormai imprescindibili, qui l’idea di apprendere tradizioni dai contadini del luogo, dare agli ingredienti una sorte diversa che vada oltre il ragionamento sul recupero dello scarto, sono evidenti.
La percezione è che lo sguardo più profondo e ampio, in termini di analisi, sperimentazione e resa, sia quello sui vegetali: dai piatti più classici e rassicuranti a quelli più innovativi, tutto concorre ad un senso complessivo che unisce ricerca e piacevolezza, lasciando in coda la mera volontà di stupire. Erbe spontanee, erbe coltivate, ortaggi tipici della laguna, fiori eduli, verdure: tutto costruisce un percorso unico e coerente, dagli amuse bouche ai dessert.
Archiviata la carne, il pesce è una lezione di scienze ambientali, affidando a crostacei, molluschi e gasteropodi il compito di raccontare l’impatto delle specie aliene e invasive sull’ecosistema della laguna e caricando poi chi sta in cucina del ruolo di attore in grado di far capire ai clienti come sia possibile ridurre o contenere tale impatto. Il ragionamento funziona quasi completamente: se specie come il granchio blu o la rapana venosa sono assai gradevoli, rimane un’unica perplessità – l’unica di tutto il percorso di degustazione – circa l’utilizzo di un esemplare (anadara inaequivalvis) che resta poco piacevole al palato nonostante l’intento e lo sforzo di offrirlo al meglio siano evidenti. Si deve tuttavia a questo mollusco, e al piatto che l’ha visto protagonista, un grande ringraziamento: quello di costringere chi si siede a tavola (a Venissa ma da qualsiasi altra parte) a cercare (e forse a pretendere?) che la piacevolezza, il piacere sensoriale e gustativo non siano costretti ad abdicare al loro ruolo in favore di una riflessione, corretta e doverosa per carità, sul destino del mondo. Non si tratta di mero edonismo, di disimpegno o di “chi vuol esser lieto sia”: si tratta di riconoscere, dopo che molta fatica è stata fatta in tal senso, al piacere il suo giusto ruolo quale strumento di conoscenza, di riflessione e di impegno.
L’ambiente
La stagione 2023 vede una rivoluzione negli spazi o meglio un capovolgimento: il ristorante si sposta dove in precedenza trovava posto l’Osteria e viceversa. Il design degli interni, i materiali, le luci e gli arredi rappresentano la prosecuzione del racconto gastronomico, giocando su colori e nuance che richiamano gli elementi della natura, legno e ceramiche a narrare la materia prima, stoviglie e piatti che giocano su modernità e linee minimali da una parte e recupero dall’altra. Il servizio svolge bene e in modo puntuale il compito di spiegare la carta.
Il menu e i piatti
Due i menu degustazione: uno da 7 portate a 150 euro e uno da 10 portate a 17. Tra i benvenuto dalla cucina che aprono il percorso più breve, meritano una lode la cartelletta con erbe lagunari (tra le quali, salicornia e salsola soda), mandorle e crema di rosole – dalla geometria perfetta, quasi ipnotica, a giocare sui toni di amaro, salinità e croccantezza – e la barchetta con crema di carapaci.
Se dell’anadara bivalvis (con rapa e fermentata ed erbe spontanee) s’è detto, un piatto che vale il viaggio è la bietola selvatica fritta, ripiena di bietola e piante di carciofo sott’aceto. Una mano felicissima, che riesce non solo a trasformare un’operazione agricola (la scardatura) in piatto, non solo a renderlo desiderabile al palato, ma anche ad blandire l’amaricante del carciofo, che in bocca esplode nella sua essenza più pura, complice la croccantezza dell’involucro e il “curry”, creato facendo essiccare le erbe della tenuta. Gentile e femminile alla vista, morbido al palato, il granchio blu è un richiamo a cavallo tra art nouveau e opere botticelliane, che gioca con i rosa, i fucsia e i viola della primavera: i fiori a guarnizione sono quelli del glicine. Vero signature dish sono poi i ravioli di artemisia, erbe spontanee e lactokoji di pinoli. Nessuna sbavatura per un piatto potentissimo nella sua delicatezza: pulito e netto il sapore dell’artemisia, esaltato dal burro fuso aromatizzato e in grado di trovare una spalla dolce e acidula nei pinoli. Dopo il granchio, le specie aliene ritornano con la “rapana venosa”, gasteropode predatore, proposto con kimchi e pane fermentato: decisamente convincente sia nei sapori sia nell’intento di porre l’attenzione sul tema.
L’abbandono della carne si è specularmente tradotto nella sfida di restituirne consistenze e sapori attraverso altro: ecco allora un finto kebab in cui sono dei saporitissimi seitan e topinambur selvatico a sostituire la carne, senza nostalgia. Da menzionare la pita fatta con le farine di Anticamente (così come il pane).
In coerenza assoluta con il percorso i dolci, che riescono nell’impresa di collocarsi nel solco della tradizione della pasticceria francese declinandone i caratteri nel mondo vegetale e lagunare. Un tocco di grande bravura, che firma un raffinatissimo soufflè alla menta, spinaci e gelato all’alloro, in cui lo zucchero viene sapientemente dosato in modo da non coprire l’identità delle erbe, esaltandole invece. Piccola pasticceria in grande spolvero, ancora in linea con la Francia. Una chiusura meritevole di un’ultima nota conclusiva: laddove si vedono sempre più dessert che utilizzano il vegetale spingendo molto sull’acidità, qui al contrario, si reinterpreta il classico con molto molto senso.
Opinione
1 stella Michelin oltre che stella verde, Venissa è un ristorante immerso nella laguna di Venezia, nell’isola di Mazzorbo. La cucina, in mano a Chiara Pavan e Francesco Brutto si rivolge con rispetto, grande tecnica e raffinatezza all’ambiente circostante, dal quale attinge con uno sguardo prevalentemente rivolto ai vegetali ma che è attento, per quanto riguarda le specie ittiche, anche ai cambiamenti climatici e alle conseguenze sull’ecosistema. La visione complessiva, pur inserendosi nell’onda “green” e sostenibile, sa andare oltre, guardando alla piacevolezza e al gusto.