Lasciatosi alle spalle il portico della Biblioteca Marciana che guarda Palazzo Ducale, superata la gelateria Al Todaro, guardando verso il Bacino di San Marco si nota un piccolo pontile coperto e chiuso da un cancelletto. Avvicinandosi, si scopre che il cancelletto si apre; sulla destra c’è una seduta, per l’attesa, mentre di fronte c’è una piccola cabina, coperta da uno sportellino: aprendolo, un citofono ed un pulsante. La nostra recensione del Ristorante Oro, una stella Michelin all’isola della Giudecca, a Venezia, inizia da qui, dal momento esatto in cui si preme quel pulsante per avvisare chi sta all’altro capo del filo che siamo in attesa della navetta che da San Marco, appunto, conduce gli ospiti del Belmond Hotel Cipriani nel buon retiro sull’isola lagunare.
Una partenza geograficamente rilevante, certo – attraversare il bacino di San Marco osservando una delle immagini più rappresentative della città è assai significativo e non meno lo è godere della bellezza dell’isola di San Giorgio, che ci si lascia a sinistra – ma ancor più rilevante dal punto di vista simbolico. Seduti all’aperto, con i successi di Frank Sinatra a fare da colonna sonora alla traversata sulla barca privata, tra onde e diverse gradazioni di blu, si acquista improvvisamente la consapevolezza che il canale della Giudecca non separa solo il centro di Venezia dall’isola in cui si trova l’hotel di lusso, ma segna un discrimine tra due mondi: di questi, uno è assolutamente inconsapevole dell’altro, avendo il privilegio di poter contare sull’imperturbabilità che regala il denaro in quantità. All’Oro del Belmond Cipriani ci si può arrivare anche in vaporetto, stretti tra i turisti: tuttavia, l’esperienza sarebbe dimezzata, non permettendo di coglierne fino in fondo la potenza. Soprattutto si arriverebbe all’hotel un po’ stropicciati. Il denaro in quantità è una benedizione, senza dubbio, ma l’atarassia che porta con sé anestetizza i sensi e rende scontate bellezza e privilegio: questa volta, invece, il privilegio o meglio il vantaggio, è il nostro, che ci ricordiamo di aver studiato Bourdieu e che approdiamo all’hotel scendendo dalla barca senza un filo di sudore e con la grande fortuna di avere alle spalle l’altra parte del mondo, quella comune.
Il contesto
Il ristorante Oro si trova all’interno del Belmond Hotel Cipriani all’isola della Giudecca. Aperto nel 1958 da Giuseppe Cipriani, fondatore dell’Harry’s Bar di Venezia, è stato e continua ad essere un simbolo di lusso raffinato: qui hanno soggiornato star del cinema, dell’arte, della cultura, personaggi del jet set internazionale, contribuendo a costruirne una fama che supera il tempo. L’hotel è stato acquisito da Belmond Hotel, del gruppo Lvmh: 96 camere e suite, ripartite tra i due principali edifici che compongono la struttura che, nel corso del tempo, si è ingrandita e ha aggiunto al nucleo originario anche Palazzo Vendramin.
Se non è questa la sede per dilungarsi sui dettagli delle camere e degli arredi, un paio di particolari sono d’obbligo: il primo, visibile già approdando via acqua, è la piscina olimpionica – unica in città – con acqua di mare filtrata e riscaldata tutto l’anno; il secondo è un’offerta gastronomica declinata in quattro spazi distinti: il Cip’s Club, con una proposta tradizionale e che fa della terrazza affacciata sul Canale della Giudecca con vista verso San Marco il suo punto di forza, l’Oro appunto, il Porticciolo, ristorante di pesce e oyster bar, ed infine il Bar Gabbiano, accanto alla piscina, che rappresenta l’emblema del cocktail bar nell’immaginario collettivo reale e cinematografico, tra divise bianche, Bellini preparati secondo ricetta, arredi che invitano l’animo ad assumere una propensione meditabonda ed una luce che per colori, potenza e intonazione ricorda le immagini di Stephen Shore.
Il ristorante
L’Oro è una meta nella meta. Il percorso per arrivarci è una sorta di climax ascendente che fa attraversare un ampio giardino (il “Casanova”) fatto di siepi curatissime e volte fiorite. La targa Michelin, appesa al muro che divide il giardino dalla terrazza all’aperto, segna un limine oltrepassato il quale l’ingresso nella sala rappresenta il culmine: quello in cui ci si trova è un vero e proprio gioiello progettato da Adam Tihany, scintillante nel suo soffitto dorato a cupola, intelligentemente pensato per fermarsi prima che lo sfarzo diventi ostentazione e volgarità. Le finestre che corrono lungo un lato e gli specchi dall’altro si danno man forte l’uno con l’altro, consentendo alla luce non solo di moltiplicare il proprio effetto ma di diventare essa stessa elemento d’arredo. Se al tramonto la vista sulla laguna è scontatamente bella, la sera la sala acquista una preziosità unica, leggera, vagamente Art Déco. Una decina i tavoli, ognuno capace di fare spazio a sé sia per l’illuminazione, che crea delle isole di intimità, sia per il servizio, attento, mai affettato e capace di cogliere la disposizione d’animo del cliente al dialogo o al godimento silenzioso e quieto. Le tonalità complessive giocano sulla materia, ma nella sua versione nobile, e persino il sottopiatto, sezione di tronco di legno liscia e lucida, è in grado di competere con le porcellane più fini.
Stella Michelin nel 2015, l’Oro ha vissuto nell’ultimo anno una svolta significativa: a raccogliere il testimone da Davide Bisetto, in cucina sin dall’apertura, è stato infatti Riccardo Canella, una scelta interpretata in vario modo – rilanciare il ristorante come meta gastronomica indipendente dall’aura dell’hotel, rinfrescarne l’immagine, far giungere in laguna l’onda nordica – ma le cui letture interessano francamente poco. C’è una cucina nuova e c’è un nuovo chef con una serie di esperienze significative alle spalle e tanto basta. Indubbiamente Venezia è un contesto complicato, quello del fine dining ancora di più e la clientela internazionale e legata alla fruizione turistica meriterebbe un’analisi a parte, legata com’è ad un certo immaginario gastronomico e di stilemi: Canella ne è ben consapevole e i suoi piatti sanno bene qual è il punto di equilibrio oltre il quale la sperimentazione diventa azzardo, rischio e incomprensibilità.
Lo chef
Di Riccardo Canella si è detto e scritto molto. Classe 1985, padovano di Mestrino, vede nel percorso professionale esperienze segnanti a fianco di Luigi Biasetto, Massimiliano Alajmo Gualtiero Marchesi ma soprattutto Rene Redzepi e il Noma al Copenhagen, di cui è stato sous chef. E’ questo il nome che pesa di più e che ha fatto sobbalzare molti al suo arrivo. Sarebbe tuttavia sbagliato leggere nel menu dell’Oro una mera trasposizione del percorso fatto in Danimarca: Canella ha saputo adattare e misurare le sue idee alla laguna ed alla città e se certamente il modo di trattare l’elemento vegetale (fiori, frutta, ortaggi, erbe, funghi e tuberi) è un lascito significativo, la cifra stilistica è quella di una potenza ed una concentrazione di gusti capace di fissarsi nella memoria di chi assaggia dal primo all’ultimo boccone, andando ben oltre il giudizio sulla piacevolezza o meno ma compiendo il salto qualitativo: far ragionare e far cambiare paradigma.
La cucina e i piatti
Un menu in carta fatta a mano che apre con una citazione “Unde Origo Inde Salus” – “da dove è venuta l’origine, da lì viene la salvezza” – particolarmente cara ai veneziani, poiché si trova al centro del pavimento intarsiato della basilica di Santa Maria della Salute, il cui culto è il più sentito in città: è questo il modo con cui Canella presenta la sua cucina che, se fa ovviamente riferimento a Venezia e alla laguna quanto a materie prime e richiami, dall’altra è una successione di portate che descrivono un percorso in ascesa in cui ogni piatto contribuisce a costruire un gradino successivo. Sapori nettissimi, capacità di rendere semplice una complessità notevole, riconoscibile sia nella tecnica che nell’uso degli ingredienti, riconoscibilità della materia prima unita alla bravura di evocare e far provare sensazioni inedite e suggestioni sepolte chissà dove. Ci sono i contrasti di consistenze e di gusti; ci sono le ultime tendenze (il protagonismo del vegetale, le polveri, le fermentazioni, i dolci non dolci); c’è la bellezza compositiva che diventa a tratti opera d’arte. Su tutto, tuttavia, la percezione che non sia semplicemente la somma di lezioni apprese e riprodotte, né la volontà di educare all’uso di determinati prodotti ma piuttosto la capacità di avere qualcosa di nuovo da dire – cosa non da poco – e il dono di gestire questo talento con intelligenza e misura.Due i menu degustazione: “Divenire”, un percorso di 8 portate (250 euro) e Vegetum (220 euro), altrettante portate per una scelta totalmente vegetale, appunto.
Dopo i classici benvenuto, l’apertura è affidata al piatto forse più fotografato dell’Oro. Si chiama Smascherato ed è un cracker di alga e miso di polenta ricoperto di fiori a forma di mascherina. Ben oltre il valore estetico, che richiama certamente uno dei simboli più citati di Venezia ma soprattutto la cucina di corte dei secoli passati in cui l’aspetto gastronomico e gustativo del cibo era inscindibile dalla sua messa in scena, qui sono molti i dettagli a colpire. In primo luogo un vero e proprio ingresso in scena maiuscolo che funge da biglietto da visita dell’intero menu, e poi la volontà di affermare che la bellezza sia solo una parte del tutto. Accompagnato al piccolo capolavoro fiorito ecco infatti Pollen/ta, una kombucha servita in un bicchiere avvolto da erbe, germogli e fiori: mentre si beve dalla cannuccia si è letteralmente costretti (piacevolmente) a mettere il naso nel mondo vegetale in miniatura, che appunto in versione croccante e pura è realizzato nella maschera. Divertimento, acume e intelligenza.
Il successivo Veniceviche, è una declinazione tutta frutta e verdura del piatto sudamericano. Tra gli altri, zucchine, ravanelli, uva, fragole, bacche e pomodori nella versione più saporita e pura di sé vengono esaltati dal brodo di pomodoro affumicato e dall’olio di foglie di pomodoro in cui sono immersi. La persistenza al palato è lunghissima, i toni giocano su freschezza, dolcezza e acidità e preparano alla successiva Insalata, in cui le erbe di stagione si trasformano letteralmente in un viaggio sotterraneo e nel bosco, complici l’uso della barbabietola affumicata ma soprattutto del caramello di funghi, che porta un vigoroso tocco di sapidità. Niente posate, si mangia con le mani e quasi immediatamente ci si dimentica delle buone maniere, per raccogliere anche l’ultima foglia rimasta. Menzione speciale per il pane, i grissini sottili come spaghetti, spolverati al curry ma soprattutto il burro, che fa piatto a sé. Montato con lievito di birra abbrustolito e accompagnato con polvere di pomodoro, diventa un contenitore in grado di racchiudere alcune delle colonne portanti della nostra storia gastronomica. Impressa la direzione complessiva, arrivano due piatti più comodi: In-contraddizione, una pasta corta mista che è un inno al colore estivo, grazie al peperone affumicato e al pomodoro grigliato, saporita e piacevole, e il Riso alloro e zafferano e polline. Una sintesi più che un piatto, in cui Canella rende omaggio a due dei suoi maestri, Alajmo e Marchesi. Alla polvere di liquirizia che segna il piatto del primo qui si sostituisce l’alloro, balsamico, mentre se la foglia d’oro del secondo era posata sopra il riso, qui è nascosta sotto, in polvere, con una scoperta affidata ad ogni boccone. Il polline arriva a dare la nota acidula che porta il piatto ad un livello superiore e che ripaga anche di una temperatura di servizio leggermente bassa.
Un colpo da maestro la Verza libera, che grazie alla carnosità dell’avocado e all’accostamento di crema al prezzemolo e crema di riso fermentato riesce a fare in modo che il palato possa contemporaneamente distinguere singolarmente sapori e consistenze e apprezzarne la fusione. Ci si dimentica delle categorie: un menu tradizionale avrebbe voluto carne o pesce, qui non solo non servono, ma il piatto non si propone nemmeno come una loro traduzione vegetale o alternativa. E’ un altro universo e si regge da sé.
Se l’Olivello spinoso – un etereo pan di Spagna servito con una sorta di insalata di agrumi, salata – introduce ai dolci preparando il terreno ad una interpretazione non tradizionale del dessert, l’arrivo del gelato di asperula (con panna al blu di capra e olio al dragoncello) è il capolavoro di chiusura, una bellezza marina e lunare allo stesso tempo, che riesce sorprendentemente a tenere tutto: la cremosità avvolgente, la sapidità che spinge al cucchiaio successivo, la freschezza pulita. Si è andati a riprendere il senso e l’effetto della mascherina iniziale e si è chiuso il cerchio raccontando davvero qualcosa di nuovo, lasciando palato e testa a pensare a lungo.
Opinione
In un contesto, il Belmond Hotel Cipriani all’isola della Giudecca a Venezia, che fa del lusso elegante e raffinato il suo tratto distintivo, l’Oro è ben più che un ristorante, affermandosi piuttosto come meta gastronomica che segna una svolta nella ristorazione non solo del fine-dining lagunare ma anche dell’ambiente alberghiero. 1 stella Michelin, ha visto arrivare in cucina un nome di rilievo, quello di Riccardo Canella, le cui esperienze ed il cui talento hanno impresso una direzione nuova alla cucina. Meta imprescindibile per chiunque voglia capire cosa succeda oggi a Venezia, e in Veneto, in campo gastronomico.
PRO
- Un disegno complessivo che sa unire piacevolezza a riflessione sulla gastronomia contemporanea
- Carta dei vini notevole e servizio di altissimo livello ma privi di spocchia
- Piccola pasticceria che gioca con i nomi delle merendine industriali e la tradizione dei merletti di Burano