Siamo stati al Gellius a Oderzo, stella Michelin dal 2005, unico locale al mondo dentro un sito archeologico romano. Ecco la nostra recensione.
La ristorazione di eccellenza in spazi museali è ampiamente sdoganata e ormai non rappresenta più elemento di stupore. Se però accade il contrario, e cioè se un locale vive all’interno di un sito archeologico, ecco che vale la pena risvegliarsi dal torpore. Ci troviamo nell’antica Opitergium, città che per chi ha messo in soffitta i libri di latino è l’attuale Oderzo, la seconda città veneta dopo Verona per la bellezza di resti romani visitabili.
Nonostante, per abitudine, chi scrive cerchi di arrivare preparata in un ristorante, in questo caso i minuti che hanno segnato il passaggio dall’ingresso nascosto a lato della piazza principale, indicato da un’insegna in sobrio metallo, al cuore del locale, sono stati contrassegnati da rispettoso silenzio misto a stupore.
Il Gellius, stella Michelin dal 2005, è l’unico locale al mondo dentro un sito archeologico romano, tra le rovine di una strada, una porta della città e di una necropoli con resti dal I sec. a.C. – l’epoca dell’imperatore Augusto – al V secolo d.C.
Deve il nome alla lapide del patrizio romano Caio Gellius, pare tra i reperti rinvenuti nel luogo. Fonte del silenzio e dello stupore è l’armonia tra i resti romani e gli arredi moderni che contribuiscono a definire una atmosfera che coniuga eleganza, finezza, leggerezza e sobrietà. Niente colpi di testa, ma un dialogo intelligente, solido, maturo.
Finita la pagina da libro di storia del liceo, tenete con voi gli aggettivi appena usati: vi torneranno utili per descrivere la cucina ed i piatti di Alessandro Breda, alla guida del Gellius, chef dalla rara correttezza. Intesa come qualità personale e come impostazione gastronomica.
Per gli amanti delle biografie, un curriculum che vanta esperienze come Marchesi, l’Enoteca Pinchiorri di Firenze, poi Londra e Germania. E poi il ritorno a casa, con una consapevolezza maggiore circa la tradizione: mai considerata ingombrante, appresa con scrupolo e rivista se e quando serve. In carta quindi c’è il Veneto (“impossibile togliere il baccalà”), ma c’è l’intelligenza di guardare anche alle altre regioni italiane.
Non c’è l’oltranzismo del chilometro zero, ma la sensatezza di scegliere la qualità, anche se significa spostarsi lontano. Non c’è l’inseguimento delle mode ma l’assunzione della pulizia come riferimento. Pulizia estetica (che non esitiamo a definire bellezza, in realtà) e gustativa. Sapori riconoscibili, insomma, senza confusione, ma con una semplicità che rende l’assaggio comprensibile e accessibile. Buono, verrebbe da dire. Se non temessimo di apparire ingenui e sprovveduti.
Il mare
Nonostante la passione di Breda per la carne, da qualche anno il mare è entrato sempre più nel menu. Rubando la scena con un’apparente candore e seducendo il palato con morbidezze inattese, suscitando reazioni che solo dei piatti di carne potrebbero dare.
E’ il caso dei primi 3 piatti. Gli scampi, maionese di crostacei e rosa di Gorizia innalzano la dolcezza a velluto sulla lingua e al palato. Una rincorsa continua, tra le carni, la maionese e il radicchio friulano, in una cornice cromatica che si muove tra il rosa, l’arancione, il salmone e l’avorio senza mai diventare stucchevole.
La capasanta non ammette mai il basso profilo: è lussuriosa e lo sa, può permettersi di essere eccessiva, di irretire. L’unica cosa intelligente da fare è assecondarne la natura: Capesante, fumetto di pesce alla paprika e salsa di lenticchie.
Una gratinatura memorabile che fa del burro e del pangrattato una coppia regale avvolta in stola di ermellino. L’umile lenticchia si fa ancora più piccola, salvo poi avvolgere setosa la capasanta, nel boccone perfetto. Che, ve lo diciamo, deve necessariamente essere grande. Non preoccupatevi di essere educati: non vi guarda nessuno, potete godervela in santa pace.
Il brodo è la festa, l’occasione speciale, la famiglia. Il brodo è di carne. E solo il brodo di carne regala quella sensazione di calore diffuso che mentre scende giù per la gola vi rimette in pace con il mondo, travolti da un’ondata di amore assoluto. Inspiegabilmente, questo ruolo di maestro zen è riuscito ad assumerlo il Consommé di cicale di mare e plin di cavolo nero. Il cucchiaio raccoglie liquido, cicala, plin (qui la pasta è croccante come quella del cannolo, per capirci). Potete essere veloci: avrete plin che si rompono sotto i denti. Oppure potete aspettare che la pasta si imbeva di brodo e diventi morbida. In entrambi i casi, è la scelta giusta.
Il Veneto è terra di risotti. E mentre siete lì che scommettete sulla prossima portata, aprendo pure alla possibilità della pasta, di colpo, inaspettatamente, la Sardegna.
Culurgiones con seppie, patate, salicornia. Il ripieno di patate affumicate regala complessità alle seppie e alle vongole. L’equilibrio è perfetto: il rischio di scadere solo nell’abbraccio confortevole delle patate da una parte o di far prevalere l’anima marina dall’altra è evitato. A camminare sul filo teso ci sono entrambe, dritte, sostenute dalla mineralità della salicornia e dall’aromaticità della polvere di bergamotto. E poi, la vedete la finezza della lisca nera in miniatura?
La terra
La carne ritorna prepotentemente nel secondo: una declinazione di vitello che vede protagonista un cubo di lombo, affiancato da nervetti e da animelle. Un piatto succulento e fine allo stesso tempo, complici il taglio del lombo e il carattere della animelle, domato da una crema di sedano rapa e riacceso dalle puntarelle scottate. Un saliscendi in cui si mastica, si scopre il tratto cedevole dei nervetti, si trova la superficie leggermente croccante delle animelle. Non c’è una regola: anarchia dell’assaggio, ciò che guida è solo il piacere personale.
Pausa.
Gelato con bacche di andaliman, zenzero candito e terra di cacao. Tre ingredienti che portano altrove, puliscono il palato senza intorpidirlo. Può entrare il dessert.
Una corona di pane di banana e crema di banana circonda un gelato al lime. Poi uvetta e cioccolato (inserito a scaglie grosse e posto alla base della quenelle di gelato). Chi scrive non ama particolarmente il sapore della banana nei dolci. Chi scrive pretende molto dal dessert, che chiude uno spettacolo. E un dessert sbagliato o non all’altezza, pur se il resto è stato di valore, pregiudica il giudizio complessivo. Come una dichiarazione che arriva inopportuna o priva di spessore. Chi scrive è anche una perfezionista del boccone perfetto, che deve raccogliere possibilmente tutte le componenti (di gusto e di consistenza) del piatto. Qui, nello specifico: la morbidezza del pane alla banana e della crema, la freschezza del gelato, l’uvetta sorniona e la croccantezza del cioccolato. Il boccone perfetto non è stucchevole, non è mai troppo carico, mai troppo dolce.
Ecco, il Gellius è stato il primo posto capace non solo di farmi superare la scarsa simpatia nei confronti della banana, ma soprattutto di farmi desiderare il bis, che solo la buona educazione ha impedito di chiedere.
Tra i molti motivi per cui venire al Gellius, uno in particolare merita di essere citato. L’onestà. Che poi è anche la chiarezza che si ritrova nel carattere di Alessandro Breda, schietto e quadrato, misurato ed educato; la stessa che mette nei suoi piatti, nei sapori. La stessa che gli fa dire che continuerà a tenere carta e degustazione perché il cliente deve poter essere libero di scegliere e non sottoposto a dittatura.
La stessa che gli fa preferire pochi piatti alla volta, in quantità che non siano né assaggi per uccellini – spesso apprezzabili proprio perché minuscoli, ma non altrettanto se riportati a dimensione maggiore – né porzioni che non ostacolino la degustazione. Breda è uno che dice “Non si cucina per sé o per nutrire il proprio ego, come sembra accadere sempre di più: in questi anni abbiamo dato troppa importanza allo chef: certo, il cuoco deve comunicare ma non deve dimenticare che deve cucinare, che è l’essenza vera del lavoro”.
Il Gellius comprende anche Nyù, un bistrot al piano inferiore, in mezzo ai resti romani, ed un bar (Lounge Bar Gellius), affacciato sulla piazza. Una trentina circa i posti, sia al ristorante che al bistrot.
Indirizzo: Calle Pretoria 6, Oderzo (TV)
Telefono: 0422 713577
Orari: Chiuso domenica sera e lunedì.
Prezzi:
- alla carta gli antipasti e primi costano tra i 23 e i 25 euro, i secondi tra i 32 e i35 euro;
- menù degustazione di 5 portate a 85 euro, 7 portate a 110 euro.