Nel cuore della Garfagnana, a Careggine, ha da poco aperto il Rifugio Alpi Apuane, il nuovo ristorante di Gabriele Bonci, che si è ritirato lassù per mettersi alla prova in prima persona come chef. Ci siamo andati, per vedere come se la cava tra quel pugno di case il gigante romano, lontano dalla folla del Pizzarium e dalla sue tante attività più terrene. La nostra recensione.
Superato il Ponte del Diavolo – porta simbolica dell’antica regione – e percorsa almeno un’altra ora tra le curve, eccomi quassù. Careggine è un borgo medievale, con tanto di case in pietra, chiesa al centro del villaggio e campanile a svettare in cima a tutto e da qui, come suggerisce il nome del rifugio, si gode un bel panorama delle Apuane, che si distendono con la loro altera eleganza proprio davanti a noi, forse più avvezzi a scorgerne l’opposto skyline, quello versiliese, e scoprirle così ci suggerisce implicitamente un’altra cosa: a Careggine bisogna davvero volerci venire.
É un luogo nascosto e dimenticato – come lo è un po’ tutta la Garfagnana (o almeno così deve sembrare a immaginarla da Roma) –, e per rendere l’idea di tanta metafisica distanza ho a disposizione un’altra cartuccia, che mi regala proprio Careggine, sul cui territorio insiste il Lago di Vagli, un bacino artificiale creato nel 1947 grazie alla costruzione di una diga idroelettrica che nel suo innalzarsi ha inghiottito per sempre il borgo di Fabbriche di Careggine. Lo si può ammirare riemergere col suo fascino fantasma solo quando, rarissimamente, l’Enel svuota l’invaso per lavori di manutenzione.
Siamo dunque pronti a scoprire la solida struttura in muratura che ospita il Rifugio Alpi Apuane. Qualche giorno fa abbiamo prenotato ma sapendo di avere qualche minuto di ritardo chiamiamo per avvisare che arriveremo un quarto d’ora dopo il previsto, temendo che il tavolo possa venire destinato ad altri. Timore, vedremo una volta giunti, irragionevole: nella non troppo grande sala del rifugio adibita a ristorante (un posto pulito, illuminato bene – ma sì, definiamolo con Hemingway) ci sono infatti alcuni tavoli vuoti e l’atmosfera tranquilla che avremmo fatto bene ad aspettarci da queste parti.
I tavoli sono a una distanza apprezzabile l’uno dall’altro, l’arredamento è tanto misurato da risultare al limite dello spartano, unico vezzo un mazzolino di fiori in origami a ingentilire il centro di ogni servizio, dalle finestre entra molta luce e a seconda di quella in cui si sceglie di gettare lo sguardo ecco aprirsi piccole cartoline sulle Apuane o un lacerto di bosco.
Il menu, i prezzi, la carta vini
Come ci avevano avvisato al momento della prenotazione, il pranzo avverrà in forma di degustazione e costerà 30 euro bevande escluse.
C’è una novità, però: è possibile scegliere la variante con funghi che costa 10 euro in più. Essendo in due le prendiamo entrambe, un menu base e uno con i funghi, non ci resta dunque che dare un’occhiata alla carta dei vini, unico breviario da consultare, che ci viene data su due fogli così brutti da farci titubare (perché siamo qui? Ah sì, per Gabriele Bonci!), uno è stampato e plastificato e l’altro scritto a mano su un cartoncino verde scuro.
Una selezione complessivamente hardcore, dai ricarichi ragionevoli.
Dovendo dopo pranzo guidare altre due ore su strade di montagna prendo solo un calice e l’unico rosso disponibile in questa modalità è il merlot dell’Aja Vecchia Lagone (5 euro). È il caso qui di fare una breve considerazione: a Careggine bisogna volerci venire, è vero, ma non è necessario volersene andare subito dopo il pasto come dovrò fare io in altre faccende affaccendato, tanto più che questo posto non è un rifugio solo di nome ma anche di fatto; nell’altra ala dell’edificio sono disponibili stanze da affittare che sono in effetti tutte prenotate.
I piatti del Rifugio Alpi Apuane
Essendo un menu degustazione scopriamo le portate man mano che ci vengono proposte, alla fine ne conterò quattordici, che volendo proiettare sul tradizionale schema divideremmo in otto antipasti, un primo, un secondo con due contorni, un “dolce” e la frutta.
Gli antipasti si susseguono in modo piuttosto omogeneo e con intervalli ben calibrati. Le prime pietanze ad esserci recapitate sul tavolo sono una tradizionale frittata di “erbi” garfagnina, una interessante terrina di zucchine gratinate con formaggio di capra, un eccellente prosciutto di petto di germano, sia con cubetti di funghi che senza (quest’ultima era davvero un’ottima, grassa ed evidentemente casereccia variante – frutto di una battuta di caccia – del prosciutto di petto d’anatra), qualche fetta di uno spesso salame di produzione locale e soprattutto, in questa prima tornata, un notevolissimo paté di fegatini di pollo e coniglio guarnito con due erbe profumate, l’achillea e la melissa, che chi ci serve dichiara di aver colto personalmente.
Il patè è eccellente, combina alla solita sapidità un andamento vellutato e un’insolita delicatezza. Questo primo giro di assaggi culmina poi con dei pezzetti di grifone sott’olio, un grande e raro fungo arancione parassita dei tronchi morenti di castagno. L’arrivo della piccola ma deliziosa porzione di Grifola frondosa è un primo deciso colpo d’ali (non per niente si chiama grifone) di questo pranzetto, in grado di segnalarci un’attenzione alla variante fungina del menu che va ben al di là della presenza dei pur ottimi porcini di queste montagne.
Dopo un certo tempo che passo benedicendo mentalmente l’idea di aver preso la variante ricca del menu, ecco un brodo di gallina e funghi (ovvero arricchito di una sezione di porcino), che viene servito in questo modo a entrambi, segnando da questo punto in poi l’estensione (gratuita) del percorso speciale anche per i piatti serviti a mia moglie e non per distrazione (in teoria potevano non piacerle i funghi – in caso avesse avuto le papille gustative interrotte – o addirittura avrebbe potuto esserne allergica), ma per un apprezzabile tocco di generosità: chi ci serve, notando che piacciono anche a lei decide di espandere il dominio dei miceti anche alle sue porzioni.
Chiude il giro degli antipasti un vero highlight: la lingua di bue (un altro fungo!) con sugo di arrosto. Il cameriere ci informa che è molto raro trovarne in questa zona e che deve il nome anche alla trama di ramificazioni biancastre al suo interno, davvero simili a quelle di una lingua di bovino. Di consistenza materica e coesa, servito con il sugo dell’arrosto, fa esplodere il suo potenziale di autentica carnosità, tanto che potrebbe forse trarre in inganno un consumatore non informato di star mangiando un fungo e non un taglio di manzo. Incuriosito sono andato a cercare l’immagine del Fistula hepatica e direi che deve il nome più che alle trame interne al suo aspetto piuttosto eloquente…
A questo punto esce dalla cucina Bonci in persona per dirigersi sicuro a uno dei soli tre tavoli occupati quest’oggi (stiamo pranzando in otto, al Rifugio Alpi Apuane), porta con sé un grande cesto di vimini interamente occupato da un fungo arboricolo giallo e crestatissimo, enorme, che riempie il recipiente per intero. “Stamo tutti in fissa qua coi funghi, li andiamo a cercare noi”, dice a questi avventori che evidentemente già conosce, prima di mostrare fiero il cesto anche al resto della sala.
Dopo una lunga pausa arriva finalmente il primo, delle tagliatelle di castagne con brodo di funghi e mele essiccate, mantecate con parmigiano. Quando le assaggia a mia moglie scappa una sorta di fumetto dalla bocca “che buonissime!”, ed è vero, sono apprezzabili, la mantecatura nel formaggio è fatta a regola d’arte e certamente la pasta di farina di castagne per molti è una rarità ma non lo è in alcuni punti della Toscana, tra questi la Garfagnana.
Mi trovo insomma a dire che, certo, sono ottime fettuccine di castagne ma non le trovo migliori di quanto si possano mangiare altrove. L’idea delle briciole di mela essiccata è più scenografica che altro, sono quasi impercettibili, forse si potrebbe pensare a qualche altra guarnizione in grado di andare un po’ più in contrasto col gusto morbido e rotondo di funghi e castagne.
Dopo un altro non breve periodo di attesa ci arrivano due pezzi di pollo fritto serviti su un letto di maionese di mela. Vi abbiamo già parlato del pollo fritto di Gabriele Bonci perché da poco viene servito nel suo panificio di Via Trionfale, a Roma, quando lui torna in città dal suo buen retiro (da quante parti può essere un uomo solo?)
Quelli che ci troviamo qui sono due pezzi di coscia, compatti e sontuosi, rivestiti da una sorta di pastella – ottenuta dal semplice contatto della sola farina con la marinatura di aglio, vino bianco e rosmarino (e un goccio di limone?) à la maniera toscana – croccantissima e ricca, che una volta perforata la sua tenacia ci lascia addentare carni ben cotte ma ancora umide e tese di quello che certamente è un pollo ruspante, come ormai se ne trovano sempre più di rado.
Di contorno arrivano delle patate e dei funghi arrosto (stavolta porcini, ben mimetizzati nella coltre di patate novelle con tanto di buccia), e una piccola terrina di fagiolini, più corti e tozzi di quelli che siamo abituati a mangiare solitamente. Dopo un po’ è la volta di un piattino di frutta: un grappolo di uva fragola e due prugnette dolcissime. Sono seguite a stretto giro da un formaggio a latte crudo prodotto da una signora di Careggine.
A portarcelo stavolta è lo stesso Bonci, che quando gli chiedo cos’è mi dice “Mo te racconto ’sto formaggio…”, poi si interrompe titubante e ci ripensa: “Scusa, senti come parlo, ora ti spiego questo formaggio”, a quel punto gli dico di andare tranquillo, che sono di Roma pure io, e mi dice che a produrlo è una signora che munge la mucca ad appena cinque metri dalla cantina umidissima, a due passi da un torrente e col solaio tutto ammuffito, in cui prepara questo latticino morbido e odorosissimo (per non dire puzzolente) che secondo lui fa pensare a un formaggio francese (oppure di qualche parte del nord Italia, aggiungerei, perché qualche buon formaggio a latte crudo lo facciamo anche noi), ma appena vede che lo assaggio ecco che me lo ripete: “Co’ sto formaggio stamo in Francia, è pazzesco!” Ma sì, vive la France.
Mancano circa una ventina di minuti alle 16, il pranzo è durato molto, forse un po’ troppo, alcune pause tra le portate potrebbero essere ridotte, e chiedo – mai domo – se sia previsto anche un dolce. “No”, mi risponde il cameriere spezzandomi il cuore, “lo chef ha deciso di uscire col formaggio e con la frutta”, e dunque il nostro pasto finisce qui.
Nemmeno una crostatina di frutta locale, neppure in alternativa al formaggio, che disdetta.
Paghiamo in due 84 euro, un prezzo che comprendendo due menu degustazione (uno da 30 e uno da 40 euro), due calici di vino, due bottiglie d’acqua e due caffè, visto il livello dell’offerta culinaria, mi pare buono.
Bonus track
Due minuti dopo essere usciti passiamo un attimo nel bar tabaccheria a venti metri di distanza dal Rifugio e troviamo al bancone proprio Bonci (che sia uscito da una porta sul retro?), tutto preso a parlare con persone del posto dei funghi incredibili che è possibile trovare nei boschi che ci circondano. La discussione avviene al cospetto di una voluminosa guida al riconoscimento dei miceti che fa bella vista di sé sul bancone del bar.
Appena mi vede mi riconosce come uno degli avventori del pranzo (del resto credo di non averlo mai visto prima di persona e naturalmente non mi sono presentato in veste di redattore), è gioviale, appassionato come dicono le tante cronache entusiastiche e perfino curioso.
“Allora, come avete mangiato?”
“Bene, i funghi erano incredibili!”
“Hai visto che bella roba, un pranzo materico, qua ci sono prodotti eccezionali”.
Rotto il ghiaccio una domanda gliela faccio io: “Senti, levami una curiosità, ma te come ci sei finito qua?”
“E tu? Come ci hai trovato?”
“Lei”, dico indicando mia moglie “è di Viareggio, che è oltre quelle montagne, ora viviamo a Firenze ma in Garfagnana ci passiamo spesso, avevo letto da qualche parte che aveva aperto questo ristorante e ci era venuta curiosità… Ma te, da Roma, quassù – insisto – come ci sei arrivato? Avevi qualche nonno di queste parti?”, butto lì.
“No no, io ci sono venuto perché mi sono innamorato di questi posti, la gente non lo sa ma la Garfagnana è la più grande avanguardia gastronomica d’Italia, qua ci sono oltre 300 tipi di frutti antichi, 80 tipi di castagne [guardate che onestà: ora mentre lo scrivo mi viene il dubbio circa cosa si riferisse con ‘sto 80, non ci scommetterei che parlasse di castagne ma sembrano ostinarsi a saltar fuori dalla scatola nera che ho piantata nella ghiandola pineale – prendete questo riferimento con grande beneficio di inventario], le erbe aromatiche, produzioni locali minuscole ma eccezionali, il farro, i funghi… ’sto posto è incredibile e io ho deciso di venire qua, vengo a fare impresa nel paese più povero d’Italia, lo sai che Careggine è il posto più povero d’Italia? E io vengo proprio qua, no a Roma o a Milano, tra un po’ aprirò pure una pizzeria, perché io credo in questo posto”.
Non lo so se Careggine sia o meno il comune più povero d’Italia ma di certo i borghi garfagnini sono sperduti, sempre meno abitati e, be’, sì, certamente poveri. Ma è anche vero che le produzioni locali offrono livelli di qualità per tanti forse insospettabili.
Informazioni
Rifugio Alpi Apuane
Indirizzo: Via del Taccino 9, 55030 Careggine
Sito Web: www.facebook.com/maestadellaformica.it
Tipo di cucina: specialità agresti con tocco di haute-cuisine
Ambiente: essenziale e pulito
Servizio: cortese, lento