Due stelle Michelin ottenute a soli sette mesi dall’apertura nel luglio 2019, “Ristorante dell’anno” in Danimarca per due volte consecutive, l’Alchemist di Copenhagen è senza ombra di dubbio una delle mete gastronomiche più ambite a livello mondiale. A guidarlo Rasmus Munk, che ha reso l’esperienza a tavola trascendentale e parte di un grande spettacolo che, iniziando dal cibo e dal percorso composto da 50 “impressions” (assaggi), ridefinisce i pasti raccontando di una cucina chiamata olistica in grado di sovvertire il concetto di ristorazione.
Il cibo diventa un “di cui” di un’esperienza che prende vita seguendo all’interno del locale una sceneggiatura in cui ogni dettaglio della messa in scena invita a riflettere: dalla religione all’inquinamento, dal rispetto dei maestri di cucina al futuro e alla sostenibilità. Un’esperienza che si svolge in cinque atti, dura dalle 4 alle 6 ore ed è riservata a 48 ospiti per sera al costo di 4600 corone danesi (circa 600 euro) vini esclusi.
L’Alchemist è aperto quattro giorni a settimana e ci lavorano (tra full time, part time e collaborazioni con ingegnerei del suono, animatori, designer…) 104 persone che provengono da 44 nazionalità diverse: questo è il nuovo concetto di sostenibilità ristorativa in cui crede Rasmus Munk, ma non è che un punto di partenza.
Ce lo ha raccontato in occasione di Food on the Edge, il simposio internazionale di cucina svoltosi a Dublino. “All’inizio lavoravamo cinque giorni con un riposo infrasettimanale e a fine settimana – spiega lo chef – ma alle persone non bastava, erano stressate, non riuscivano a organizzare nel modo migliore la loro vita privata, e così dopo due mesi abbiamo deciso di chiudere tre giorni di fila e aprirne solo quattro. L’ambizione per la fine dell’anno è quella di avere per tutti i nostri dipendenti un’assicurazione sanitaria, ed è ovvio che per fare questo abbiamo dovuto aumentare i prezzi”.
La vita privata dei cuochi è importante
Aumentare il costo del menu per garantire un’equa retribuzione al proprio staff: questa è l’ottica a cui sta guardando la cucina nordica. “Sappiamo di essere in una situazione privilegiata – aggiunge Munk – il nostro locale è sempre pieno, abbiamo una waiting list importante e siamo in una posizione che ci permette di farlo. Ecco perché abbiamo aumentato il prezzo, rispetto all’apertura, del 100 per cento, ma questa è comunque una tendenza che coinvolge già molti ristoranti fine dining di Copenhagen. Io mi sono trovato – aggiunge – nella situazione di dover scegliere: i miei tre head chef stavano per diventare padri e spesso succede che chi fa questo mestiere debba scegliere tra il lavoro e la famiglia. Abbiamo parlato – prosegue – e ho chiesto loro quale sarebbe stata la soluzione migliore per poter restare al lavoro nel nostro locale. Insieme abbiamo deciso di tenere aperto solo la sera e di avere il weekend libero: in questo modo tutti possono godersi la famiglia e anche chi è single è contento perché ha tempo per viaggiare, andare a un concerto o a provare altri ristoranti”.
False realtà romantiche
La scelta è stata dettata quindi, in primis, da un’esigenza personale, legata alla “sostenibilità” di un luogo di lavoro che passa, oggi più che mai, dalla qualità della vita delle persone. “Il mio sogno – prosegue Munk – è quello di aprire in futuro solo tre giorni a settimana. So che ci sono dei limiti e non so se sarà mai possibile, ma se uno lavora dodici, quattordici ore in un ristorante dove va a finire la sostenibilità della vita? Il mio pensiero è sempre andato in questa direzione, anche prima della pandemia. Sono felice dei successi ottenuti con la guida Michelin e con i World 50 Best Restaurants, ma la vita è anche fuori dal proprio luogo di lavoro per quanto uno lo ami e sia importante. Va poi detto che per anni, noi ristoratori, abbiamo costruito false realtà con storie romantiche sulla sostenibilità e sugli ingredienti, ma poi devi far tornare i conti e per pagare adeguatamente chi lavora per te garantendo uno stipendio adeguato, un piano pensionistico e un’assicurazione è inevitabile che un’esperienza al ristorante debba costare almeno tre volte tanto. Per questo motivo abbiamo deciso di alzare i prezzi”.
I grandi ristoranti classici vs il fine dining d’esperienza
La clientela di Alchemist è sicuramente internazionale, ma comprende anche molte persone locali: “A molti dei nostri clienti – aggiunge lo chef che è passato da zero a due stelle Michelin in un colpo solo – il cibo non interessa quasi nulla, vengono per vivere un’esperienza che è fuori dagli schemi e di cui le portate servite a tavola non sono che una parte. Io credo che il futuro dei ristoranti di fine dining andrà in questa direzione e sarà sempre più legato a vivere delle esperienze. Esisteranno ancora, è ovvio, grandi ristoranti “classici” di cucina francese o con tre stelle Michelin e avranno la loro clientela, ma credo che aumenteranno sempre di più realtà con tocchi personali molto forti come il Noma o il Reale di Niko Romito che ho visitato la scorsa estate (estate che ha portato Munk anche ad Alba da Enrico Crippa, da Mauro Uliassi, Riccardo Camanini, Napoli per i grandi maestri della pizza e Villa Sparina a Gavi, ndr). Per essere sostenibile un’esperienza culinaria deve guardare in questa prospettiva: in tutto il mondo si trovano ristoranti eccellenti, ma cucinare bene non è abbastanza per il futuro. Se rendi qualcosa unico, le persone pagheranno per provare quell’esperienza, ed è un po’ quello che è successo con Alchemist. Noi non parliamo tanto di ingredienti, ma la gente sa che lavoriamo solo con i migliori e hanno fiducia in quello che facciamo anche se non utilizziamo il cibo per spiegare la società in cui viviamo”.
È anche vero che Alchemist si trova a Copenhagen dove è noto che la cucina nordica abbia fatto non solo scuola, ma anche sistema. “Sicuramente la comunità in cui ci troviamo – conclude – aiuta nella rivoluzione che è in atto, ma si tratta prima di tutto di un fattore culturale. Si cambia perché c’è una grande domanda: il cambiamento è dovuto alla richiesta dei giovani chef che non sono più disposti a lavorare tante ore nelle cucine, spesso mal pagati, e con un sistema gerarchico in cui non c’è comunicazione, confronto, ma spesso si urla e si dettano ordini. Questo è il passato, non è più un futuro sostenibile e penso sia una vergogna che questo cambiamento non sia avvenuto prima. Ci sono chef conservatori che oggi sono forzati dall’epoca in cui viviamo a fare qualcosa di diverso e in qualche modo dovranno adattarsi”