Oramai se non hai un menu che traccia i prodotti, un naming etno-figo e un’ambientazione shabby-chic non sei nessuno. È il pensiero che mi viene entrando – e soprattutto uscendo per scrivere questa recensione – da Pizzium a Torino, in una delle pizzerie della catena di qualità. Per carità, l’ho detto e lo ripeto, nessuna nostalgia per la pizzeria del secolo scorso, divisa tra artigianalità spesso improvvisata e catene industriali. Ma adesso, adesso che la pizza si è data una ripulita, è diventata anche gourmet, adesso che il mangiare è food e l’impiattamento è solo il capitolo finale della narrazione, da certe cose non si può prescindere.
È naturale allora che chi apra un locale pensi innanzitutto al format: cosa offro? Come mi distinguo? Giusto giustissimo, solo che poi se il format risulta azzeccato, la mossa successiva è quella di replicarlo. C’è chi parte con questa idea già dall’inizio – con successo o meno, è altro discorso – e c’è chi, rara avis, riesce a diffondere il marchio senza trasformarsi in catena (vedi Berberè). Il rischio poi, per come la vedo io, non è tanto la standardizzazione da catena, quanto la prevalenza della forma. E qui arriviamo a Pizzium.
Il format
Diciassette punti vendita, sei solo a Milano, molti altri in Lombardia – Como e Varese ma anche paesi di provincia – due a Torino, uno nell’outlet di Serravalle Scrivia, uno a Bologna e uno a Roma, il più a sud di tutti. Un’espansione notevole per un progetto nato solo nel 2017 da Giovanni Arbellini, che ha imparato l’arte delle pizza nella nativa Napoli e la tecnica della sua riproducibilità nell’adottiva Milano – a partire dalla quale ha seguito per Rossopomodoro alcune aperture, tra cui Tokyo.
Sul sito Pizzium si presenta parlando di “lungo viaggio della vera pizza napoletana”, toccando alcuni topos come l’impasto “lievitato più di 24 ore”, gli “ingredienti DOP e IGP” e le “ricette regionali”, in sintesi autodefinendosi “una pizza in continua evoluzione ma con un’identità di tradizione napoletana”. Curioso allora che non scendano sotto la linea del Garigliano, forse il biglietto del lungo viaggio era di sola andata.
Pizzium, ambiente e servizio
Proviamo uno dei due punti di Torino, quello più in centro, affacciato su una piazza IV marzo da anni ormai rimessa a nuovo, più viva e mangereccia che mai. Il locale è bello e spazioso, soffitti alti e luminoso, mattoni a vista ma imbiancati, mattonelle rustiche e altissimi scaffali colmi di conserve e utensili (che se li si guarda bene ospitano gli stessi 4 o 5 elementi sempre ripetuti in maniera diversa, come da una specie di algoritmo generatore automatico di mensola shabby chic), lampade con paralume di stoffa.
Due sale, pizzeria in bella vista alla fine della prima; i coperti sono 70-80, è apprezzabile una comoda distanza tra i tavoli in legno.
Il servizio è gentile e premuroso, anche se in certi momenti sembra mancare qualcosa a livello di comunicazione tra i pizzaioli al bancone e la sala, ma ci torniamo.
Ah, il menu è stampato sulle tovagliette di carta che fanno da coperto: idea non inedita ma buona, a Napoli si dice sparagna e cumparisci, risparmi e fai bella figura.
Il menu di Pizzium e i prezzi
La carta prevede una prima pagina divisa tra “stuzzicherie” (bruschette e focaccine), e vere alternative alla pizza: panuozzi, piatti stagionali (che stagionali non sono perché la parmigiana di melanzane a gennaio santiddio mantenetemi).
Le pizze sono 23: 3 classiche (tra cui non c’è la marinara ma la Napoli che a Napoli quasi non esiste, e la poco tradizionale ma ormai obbligatoria Bufalina). Poi ci sono le pizze regionali, 20 per quante sono le regioni italiane: a volte gli accostamenti sono tipici (carne cruda in Piemonte, pesto in Liguria), a volte suggestivi, a volte pretestuosi. Simpatica comunque l’idea dell’omogeneità, un po’ meno il fatto che, sbirciando su internet un menu precedente, ci si ritrovino praticamente le stesse pizze solo che i nomi sono quelli dei quartieri di Napoli: la fantasia si limita al maquillage?
Anche le indicazioni dei produttori fanno tanto obbligo da assolvere.
Una decina di vini regionali, tra bianchi e rossi, molti anche al calice. Birra artigianale della casa (Birrium), prodotta dal birrificio Balabiòtt; sennò Moretti. Bollicine e spritz, anzi Spritzium.
I prezzi: fascia media, come da presentazione. Margherita a 7 euro ed è il minimo, Napoli a 8, compresse tra i 9 e i 12 le altre.
Le stuzzicherie di Pizzium
Chiedo un antipasto giusto per provare, la ragazza che ha in mano la sala ci propone invece un tris di bruschette da condividere: accettiamo e ci arrivano 3 bruschette su 3 piatti diversi, che alla fine pagheremo per l’appunto come 3 voci separate (e siccome in occasione analoga mi ero lamentato del cameriere che non mi aveva fatto fess’ e cuntento, ora mi tocca stare muto).
Il pane, autoprodotto, è ben alveolato e saporito, ben bruschettato e giusto un filo gommoso. Buoni i topping, ben dosata la nduja e ottimo equilibrio tra alice di Cetara e stracciatella. Forse un po’ alto il prezzo, dato che pur sempre di una fetta di pane condito si tratta.
Le pizze di Pizzium
Come tradizionale napoletana si presenta, la pizza, e tale è. Sottile al centro e mediamente alta di cornicione, è ben cotta (brunita a macchia di leopardo) e solo un po’ bruciacchiata in certi punti marginali. Al morso la fetta è morbida, leggermente elastica. C’è da dire che le nostre pizze hanno atteso qualche minuto sul bancone, a pochi metri da noi che fremevamo potendo solo guardarle: il che se da un lato depone bene sull’efficacia delle due lampade calate sui piatti per tenere in caldo le pizze, dall’altro incide sul sopra detto deficit comunicativo pizzeria-sala. E comunque tale irrilevante intoppo (se non l’avessimo visto succedere non ce ne saremmo accorti, a giudicare dalla sola temperatura) ha fatto venire a galla il lato gommoso dell’impasto: si sa, è caratteristica della pizza napoletana (ma comunque non di ogni pizza napoletana, e certo non delle migliori) il fatto che più passa il tempo più diventa gomma.
Per avere un’idea, ne abbiamo presa una base margherita e una base bianca. La Calabria è ben amalgamata, la nduja non prevarica, il caciocavallo è però quasi assente, non essendo in scaglie ma in veli sottilissimi usciti dall’affettatrice. La Liguria vede prevalere l’agrumato del datterino giallo sul pesto; comunque nel complesso gradevole.
Come gradevole e molto fluffy è il tiramisù, dolce che scegliamo invece dei classici meridionali (babà, cannolo) dato il suo carattere ecumenicamente sovraregionale.
Conto, digestione, giudizio
Paghiamo più di 20 euro a testa, per niente poco dato l’approccio, mediamente ricercato ma non certo da fine dining; per dire, ce la siamo cavata con meno in pizzerie senza dubbio gourmet.
Sete e gonfiore persistente per me, zero problemi per la mia commensale, astemia e refrattaria al peperoncino – il che mi porta a dirigere la colpa non sull’impasto ma sull’abbinamento con nduja e birra.
Opinione
Vuole essere una napoletana “evoluta”, in un ambiente shabby-chic. Si rivela una pizza serena, al netto del contesto: la prevalenza della forma, che non va però a discapito del contenuto.
PRO
- I tavoli distanziati già prima del Covid.
- Il servizio gentile ed efficiente.
- Gli ingredienti delle pizze e le stuzzicherie.
CONTRO
- L'ambiente finto trasandato sembra un po' un cliché.