Non c’è niente da fare, l’America è proprio il mondo alla rovescia. Qui siamo così fissati con l’artigianale, la piccola bottega, il minuscolo produttore, che anche le più grandi catene s’inventano l’impossibile al fine di spacciarsi per crafty. I birrifici industriali differenziano il prodotto creando marchi premium “territoriali”, imprenditori della ristorazione che aprono un locale alla settimana ma sotto nomi sempre diversi per evitare l’effetto fotocopia, e via fingendo. Tanto che esiste anche l’apposita parola: craftwashing. Negli Stati Uniti invece sta per nascere una catena di pizzerie che è tale solo di nome, e lascerà quasi tutto uguale nei singoli locali, il quali non faranno altro che raggrupparsi sotto la stessa facciata: il marchio @pizza. A che scopo? Quello di aumentare le vendite facendo delivery con Uber Eats. Sembra un paradosso, e lo è: ma ha le sue perverse ragioni.
Da quando è iniziata la pandemia, varie limitazioni hanno duramente colpito il food, per di più a singhiozzo e in modo imprevedibile: tutti chiusi, aperti solo a pranzo, cena no, cena sì ma con consegna e asporto, solo consegna da fattorini autorizzati niente clienti nel locale, e via delirando. Questo non ha fatto che rafforzare un settore che già stava crescendo, che era già diventato il simbolo della gig economy: il delivery con le sue mega piattaforme. Che non hanno solo un problema (altrettanto mega) con i rider, ma si pongono in posizione di dominio nei confronti dei locali. Imponendo clausole da cravattari, decidendo chi spingere e chi affossare (ah, l’algoritmo…), e in certi casi addirittura inserendo i ristoranti a loro insaputa e procurando un danno d’immagine non indifferente.
@pizza: tante identità, nessuna identità
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Per i piccoli, poi, le piattaforme sono un dilemma diabolico: starne fuori significa morire, stare dentro scomparire. Ma ecco arrivare la soluzione, dall’America delle libertà: creiamo un marchio, un contenitore vuoto, con un nome che più neutro e generico non si può, facciamo aderire le pizzerie artigianali, e queste potranno acquisire una grande visibilità sulla piattaforma di consegna, vendendo come una catena ma mantenendo la propria artigianalità. La piattaforma è Uber Eats, il marchio @pizza, l’impresa che ci sta dietro @restaurants (che ha annunciato per il futuro analoghe iniziative in altri comparti: @Icecream, @Hotwings, @Baked, @Liquorstore, indovinate di cosa si occuperanno).
A rendere il tutto ancora più weird, il fatto che la promozione sia affidata a FuckJerry, l’account social famoso per rubacchiare contenuti a vari utenti e proporli come propri, e ancora più noto per aver prima promosso il Fyre Festival – la più grande trollata del secolo – e poi partecipato alla realizzazione del documentario sul misfatto. Insomma, uno che i fake se li mangia a colazione. Ma al di là di tutto: sembra che con questo sistema si prendano due piccioni con una fava, o come si dice lì, sia una win-win situation, e infatti 150 pizzerie hanno già aderito.
Probabilmente in America funzionerà davvero. Qualche settimana fa abbiamo visto come la pandemia abbia addirittura rafforzato il comparto pizza in Usa, e per dei meccanismi precisi che in Italia funzionano tutt’al contrario, ragion per cui qui le cose invece sono andate a catafascio. Non è un caso che mentre qui i marchi cercano di distinguersi, gli Usa siano il posto dove si è diffusa una catena “apparente” come Ray’s pizza: insegne e locali molto simili, ma tutte di proprietari diversi. Chi sta imitando chi? O tutti stanno imitando l’idea platonica di pizzeria?
Cosa ordinate quanto ordinate una pizza delivery?
Nell’articolo che racconta la vicenda, Eater fa notare che il cliente, e soprattutto il cliente del locale economico, e soprattutto il cliente del locale economico che ordina da asporto, non cerca né l’artigiano né l’esperienza, ma “la cosa”: IL burrito, IL pad thai, LA pizza. L’americano medio fa poche storie: lui non vuole il produttore particolare o la pizzeria gourmet, la pizza è pizza, anzi è @pizza. E però, questo sistema, destinato al probabile successo proprio per la sua accelerazione turbocapitalista, potrebbe creare sconquassi anche nel poco raffinato settore pizzario statunitense.
Per l’adesione al marchio non si chiede altro che inserire alcune voci di menu: anche se non è ancora chiaro quante e quali, si immagina che si tratti dello standard minimo delle pizzerie. Per il resto, ognuno faccia come vuole, massima libertà: in questo modo, Uber si erge addirittura a paladino dei piccoli artigiani. Ma è così? Tutto lascia immaginare che gli effetti sui locali che aderiscono saranno di standardizzazione spontanea, di livellamento automatico verso il basso. Tutti tenderanno a ricavare il massimo col minimo, tanto il nome non compare. È una sorta di esternalizzazione del franchising: prima per aprire un negozio di catena bisognava sottostare a una serie di norme standardizzate, obblighi e imposizioni espliciti. Ora, l’uniformazione sarà implicita e autonoma: una fatica in meno per chi si prende tutti i meriti. È chiaro che, infatti, dall’altro lato @pizza e Uber più cresceranno e più vedranno rafforzato il proprio marchio, la propria identità, a discapito dei piccoli artigiani che lavorano in incognito. Una delocalizzazione, ma sotto casa. E che co volete fare, così va il mondo. O meglio, così va l’America (per ora).