Ci sono due tipi di persone: quelli che vanno al cinema da soli e quelli che pensano sia una cosa da sociopatici. Quelli che amano mangiare da soli al ristorante e quelli che lo considerano una sorta di perversione.
Personalmente, anche se ogni tanto mi rendo conto di attirare gli sguardi perplessi della gente intorno a me, rientro fedelmente e da lungo tempo nella categoria dei solitari da pasto.
Assaporare il cibo è un piacere intimo, personale. Quindi mi piace, mangiare da sola. Al massimo, in compagnia di una persona. Se devo gustare quello che ho nel piatto, ho una totale avversione per le tavolate e per i locali affollati.
Quindi, quando ho scoperto l’esistenza di un ristorante giapponese con un solo tavolo a Piossasco, in provincia di Torino, mi ci sono fiondata pensando: “può essere il posto della vita”.
Non è facile prenotare in un posto con un solo tavolo. Ma alla fine ci sono riuscita, ad andare a Le Petit Restaurant Japonaise, il ristorante con soli otto coperti di Simone Oberto, piemontese innamorato dell’Oriente e della sua cucina.
Ora. “Ristorante”, probabilmente, non è la parola più adatta.
Perché andare a mangiare al Petit Restaurant Japonaise è un po’ come essere invitati a mangiare da un amico che ha una moglie giapponese che ai fornelli ci sa fare (d’altronde, Naomi è arrivata nella vita di Simone rispondendo a un annuncio di lavoro, in cui lui cercava una cuoca giapponese per il suo progetto).
Arrivi a Piossasco, entri in un interno cortile, sali le scale e, dopo le presentazioni di rito, ti togli le scarpe per sederti al tavolo della sala da pranzo in ciabatte, come faresti a casa della tua amica fissata con il suo parquet.
Tutto sa di Giappone, nella piccola dimora di Simone e Naomi, tra oggetti d’arredamento orientali e i colori della bandiera nipponica un po’ ovunque.
L’ambiente è carino, raccolto, familiare. Il calore di una casa, senza la necessità di troppi convenevoli da sbrigare con i padroni di casa. Perché in fondo, se vado in un ristorante con un solo tavolo, forse sono anche alla ricerca di un po’ di privacy.
E l’accoglienza di Simone è puntuale ma discreta, attenta ma non invadente. Io e la mia amica che mi accompagna, coppia di incallite pettegole, possiamo dedicarci alle chiacchiere più spudorate, senza mai sentirci sotto osservazione.
Ma cosa –e come– si mangia, al Petit Restaurant Japonaise? Le proposte sono sostanzialmente di due tipi: un menu di tre portate a 35 € e un menu di cinque portate a 50 €. Acqua, vino o birra giapponese e sakè compresi.
Dici giapponese, e immediatamente –-facendo un torto culturale a una delle cucine più varie e interessanti del mondo-– pensi al sushi. Che qui è solo la prima portata di un menu che parla un misto tra Giappone e Cina (senza però l’odore di fritto delle cucine cinesi più cheap).
Su un piatto d’ardesia arrivano quattro maki (salmone, tonno, avocado e tonno e maionese) e due nigiri fusion, che sopra al riso originario Okomesan stendono –-anziché il pesce crudo-– un carpaccio di coscia rotonda di vitella piemontese, che su richiesta può anche essere leggermente scottato con la fiamma del cannello.
Ha una passione per la carne, Simone, che è figlio dello storico macellaio del Paese, e per questo sa riconoscere le carni migliori. Bene, ci viene da dire. Il consiglio è di continuare su questa strada, perché anche se dal Giappone abbiamo importato solo il pesce crudo, in realtà il Paese vanta una grande tradizione di carne, cucinata soprattutto alla griglia.
E, ripetiamo, Naomi in cucina ci sa fare.
Lo dimostra in particolare con i Gyoza, i classici ravioli orientali di porri, verza, zenzero e carne di maiale. Avvolti da una pasta sottile e croccante nei punti di maggiore cottura, hanno un ripieno delicatissimo, a cui dà la giusta decisione la salsa di soia al limone che ci servono in abbinamento.
Il terzo piatto del nostro menu ci viene presentato come uno dei must di Naomi (anche se noi ci siamo innamorati dei ravioli): pollo fritto passato in salsa di soia e zucchero, servito con una salsa tartara home made e una potato salad, versione giapponese della nostra insalata russa.
È fatto in casa anche il buonissimo gelato al tè matcha che ci viene servito per chiudere il pasto. Che avrebbe potuto essere innaffiato da litri di sakè, se io e la mia commensale non fossimo due signore per bene.
In fondo, a casa degli amici ci si può riempire il bicchiere tutte le volte che si ha sete, e fare i complimenti alla cucina chiedendo il bis di tutto (che, puntualmente, ci viene servito con gioia).
La formula, come si può capire, ci è davvero piaciuta. Così come la cucina, che pure avremmo preferito un po’ più spericolata. Il vantaggio di andare a mangiare a casa di amici giapponesi sta probabilmente nel provare cose nuove, che qui in Occidente non sono così conosciute ma che rappresentano la quotidianità di una certa cucina orientale.
I ramen in brodo, ad esempio, o i dango, gli gnocchi giapponesi che vorremmo tantissimo trovare in ogni sushi bar degno di questo nome.
Ma c’è tutto il tempo per sperimentare, ed è giusto che questi due ragazzi si attestino, per il momento, sui loro piatti forti. In fondo, anche io quando ho ospiti a casa vado sul sicuro con la mia consolidatissima lasagna al ragù.