Due stelle Michelin: non tre, ma neanche una. Sorta di limbo ovattato che richiama la sindrome del figlio di mezzo, quello che alcuni chiamano figlio sandwich. Non così geniale da meritare l’olimpo, pur assodato il suo impegno.
Dev’essere complicato stare nel guado dorato delle due stelle, in continua tensione verso la terza e con l’ansia di tornare nel magma dell’astro solitario.
Invece c’è chi ci si sente a proprio agio, dopo 8 anni di onorata carriera bistellata, come il >Piccolo Lago di Verbania, ristorante che lo chef Marco Sacco gestisce da sempre con la famiglia.
La scorsa settimana, in vista del un nuovo menu, una folta schiera di giornalisti è stata invitata per testare i nuovi piatti sul Lago di Mergozzo. Caricati sui pulmini come scolaretti in gita, i suddetti (me compresa) sono stati chiamati alla prima dello spettacolo.
La serata inizia in cucina, una delle cucine più belle in cui sia mai entrata. Niente illuminazione “da cucina”: luci calde, soffuse, una lunga vetrata che trasforma il regno dello chef in un’appendice naturale della sala.
Dentro ci sono tantissimi giovani, un po’ imbarazzati dall’invasione delle cavallette munite di smartphone che scattano foto all’impazzata.
Nella sala principale c’è il camino acceso che fa tanto casa, e insieme all’arredo senza vezzi troppo contemporanei ti dà l’impressione di essere arrivato a una cena di famiglia.
E poi c’è il lago, che basta da solo a farti sentire in un posto speciale.
La cena inizia con un’infilata di antipasti che ti fanno subito ricredere: no, qui non cucina la nonna Pina.
Ci sono il cavolo nero croccante con crema di nocciole, l’anima della carota con un centrifugato di barbabietola, la chip di tapioca con maionese al lime e maionese alla paprika: siamo in ristorante due stelle Michelin, perbacco.
Dove non possono mancare gli esperimenti arditi: il marshmallow al tartufo nero, la cotenna fritta con salsa al Campari e cialda di fragola.
Aumentano rispettivamente: in bocca la salivazione e in testa l’aspettativa. Chissà dove si spingerà Marco Sacco? Se nelle entrée siamo già un tilt, chissà cosa verrà dopo…
Il primo piatto si chiama Topinambur: così, nudo e crudo.
Da buon piemontese, lo chef inizia il percorso gastronomico con un ingrediente della tradizione e un piatto davvero notevole.
Presente vero il topinambur? Ecco: sparatelo in tripla consistenza (crema, bucce in chips e cotto al forno) e godetene tutto il sapore incredibile.
Poi arrivano lumaca e lumaca: da una parte il mare, dall’altra la terra.
Se per il mare si sceglie il sapore esotico (con lumache di mare al vapore, gambero essiccato, papaya verde, due tipi di peperoncino, lime, salsa di ostriche e julienne di sedano rapa), che rimane però molto blando, dimenticabile, dall’altra le lumache di terra (sono ossolane, di casa insomma) vengono preparate nel più classico dei modi francesi, con aglio, burro e prezzemolo, poi servite su una spuma di patate e grappa.
Il mio è un 50 e 50: gustose e classiche le lumache di terra, poca personalità e sapori blandi per quelle di mare.
E’ il momento della pasta, con lo spaghetto d’Italia, ovviamente tricolore.
Si tratta di un piatto dall’idea semplice: la crema di Mascarpa, lo spaghetto con pomodoro essiccato e ‘nduja, il broccolo veneto.
Un sapore completo che mescola acido, piccante e vegetale.
Arriva Acquario vegetale. Me lo raccontano come un piatto che ricorda il mare, anche se è solo vegetale.
Le premesse per una piccola bomba di sapore ci sono tutte: abbiamo la patata cotta nel burro, il cetriolo, la crema di pastinaca e poi acqua di mare e latte con salicornia, cetriolo di mare e shizo.
Chissà cosa vado a pensare: il mare è un ricordo lontano, su tutto vince la patata che è molto dolce, con un po’ della nota rinfrescante del cetriolo che comunque non riesce a tirare su il morale.
Arriva la “Porca costina”, anche qui tutto sembra un esercizio di stile che fatico a capire.
La costina cotta sottovuoto è tenera, benché non particolarmente succosa, e laccata. Al posto dell’osso è stato appoggiato un cuore di porro scottato e passato alla fiamma ossidrica. Poi un friariello, la salsa BBQ della casa e il cavolo nero.
Il sapore, ovviamente, è buono, ma non ho ben chiaro dove si volesse andare a parare. In America? In America rivisitata? In America italianizzata?
E’ il momento del dolce, nell’accezione contemporanea del termine: con ortaggio e non davvero dolce.
Ormai si tratta di una tendenza conclamata, non mi stupisco di trovare il carciofo nel dessert. Insieme a lui ci sono una quenelle di gelato al latte di mandorla, una spuma di riso e lime, e nocciole fresche grattugiate: solo che in bocca sento solo un vago retrogusto di carciofo, molto vago, e poi nulla più.
In quella, arriva al tavolo lo chef: deglutizione velocizzata e poi, nonostante non sia mai andata proprio bene questa mia pratica della sincera ingenuità, gli dico che non ho capito il piatto.
Non sono certa che il fatto di dichiararsi insoddisfatti di un piatto al diretto interessato paghi, ma non é la prima volta che cado nell’errore di un eccesso di schiettezza.
Il linguaggio del corpo fa il resto: Sacco si tira un pochino indietro, con tutta le gentilezza del mondo ostenta un sorriso un po’ tirato e mi racconta la storia del carciofo.
E, alla fine dell’aneddotto-genesi del dessert, resto della mia, perplessa, un po’ delusa.
La storia, il contorno filosofeggiante, quello che alcuni chiamerebbero supercazzola, per capirci, funziona da cassa di risonanza solo se il piatto convince in primis in bocca.
Il resto è nulla, io resto della mia opinione e il carciofo continuo a non capirlo. Forse è un problema mio, e un po’ mi maledico per aver creato il gelo sul tavolo, tanto è stato inutile.
Nel complesso, a parte qualche piatto davvero buono nel suo essere semplice e quasi famigliare, esco un po’ perplessa, per niente sicura che domani ricorderò tutto il percorso gastronomico.
Guidando rifletto sulle due stelle Michelin, sul gap tra aspettativa e gusto personale, tra sperimentatori arditi senza stella Michelin e reazionari che brillano vivendo di rendita.
Il Piccolo Lago non mi è dispiaciuto: ottimo il topinambur, buone le lumache di terra.
Poi ci sono stati altri piatti da “boh”, che non so se sono io a non aver capito, o se voler “capire” a tutti i costi è un esercizio di follia gastronomica dei tempi moderni.
É lecito, pur essendo in un ristorante due stelle di conclamata storia, aver mangiato alcuni piatti che sono scivolati via senza troppa emozione. Una cosa che quasi mi dispiace dire, ho persino paura di peccare di lesa maestà, ma poi alla fine questa é la verità.
Solo la mia, di verità, ovviamente.