Spiace dirlo, ma c’è una litania che ogni anno, a ridosso della presentazione della Guida Michelin, risuona nel mondo della gastronomia torinese e riguarda il Vintage 1997. La litania, che si autoalimenta senza prove ma con costanza, si chiede come mai questo ristorante abbia ancora la stella e perché non gli venga tolta. Ora, stanca dell’ennesimo vociferare che, come un tarlo, si è insidiato ormai nella mia testa, decido di andare a capire di persona cosa si nasconda oggi dietro la porta di piazza Solferino 16/h perché non la varco ormai da troppo tempo (e forse, mi viene da aggiungere, non sono l’unica).
Nulla è cambiato: il rosso alle pareti, la calda accoglienza di Umberto Chiodi Latini (che appartiene a una delle storiche famiglie della ristorazione torinese), le lunghe tovaglie bianche, la grande conoscenza delle materie prime, quella compostezza sabauda rispettosa del lavoro, delle relazioni, delle persone. È un qualsiasi giovedì della settimana e, a pranzo, le due sale del Vintage 1997 sono complete (di quanti altri ristoranti stellati in città potremmo dire altrettanto?). Non è certo grazie ai “piccoli menù Vintage” da 30 euro (intorno al mio tavolo non li prende nessuno): anche se la proposta è del tutto allettante soprattutto per chi non conosce questa realtà o ha voglia di un pasto veloce, chi frequenta il locale di Umberto Chiodi Latini lo fa perché vuole provare una precisa esperienza.
La stessa che si ripete da anni e che vede il Vintage (aperto nel 1997) vantare il primato di possedere la stella Michelin più longeva della città: il Macaron qui esiste ininterrottamente dal 2004. E l’esperienza racconta di una identità ben precisa che si è consolidata negli anni e che è una certezza, una “costanza che è diventata costante”: gli ospiti del Vintage cercano proprio questo. Quell’aria un po’ d’antan ricorda una Torino d’altri tempi a cui i torinesi sono affezionati: è la Torino dell’eleganza, del rispetto, della cortesia, delle buone maniere, della sostanza.
Tra gli ultimi baluardi della Torino che fu, dunque, il Vintage 1997 (va detto per rassicurare gli animi) gode di ottima salute. Umberto Chiodi Latini veste il ruolo di perfetto padrone di casa (ce ne fossero ancora tanti come lui) e dispensa consigli a profusione tra un tavolo e l’altro. Il Vintage piace indiscutibilmente per l’atmosfera e per l’accoglienza, ma se il cibo non fosse buono questo sarebbe solo fumo negli occhi: qui invece si vede benissimo. La scelta è ampia: oltre alla carta ci sono tre menù a 75 euro (vegetariano, Mediterraneo, di territorio), il menù Punt e Mes a 100 euro e il Luna Park (su prenotazione) a 120 euro. Prezzi onestissimi per un ristorante stellato.
Gli assaggi spaziano dai classici della tradizione piemontese, a piatti di pesce per arrivare a omaggi a grandi chef: è il caso di Sinestesia, tripudio di ortaggi con citronette al miele di Acacia, dichiarato richiamo ad Alain Passard (non lo avreste mai immaginato, vero?). Il pane proviene da un forno del Canavese, l’olio extravergine di oliva è rigorosamente toscano, la carne cruda di Fassone tagliata al coltello è preparata con la coscia (perché è più gustosa), il Vitello tonnato è alla vecchia maniera (anche nelle dimensioni del girello), i Tajarin all’uovo preparati con burro di montagna e Parmigiano delle vacche bianche modenesi prodotto a Zocca (la città di Vasco Rossi e del re della tigella Ilvano Prostrati) sono puro orgasmo gastronomico piemontese.
Premia il gusto, l’accoglienza, la costanza. E allora, viene da chiedersi, perché spifferare certe litanie? Forse tra colleghi e appassionati bisognerebbe smettere di seguire le mode del momento, fare un passo indietro e capire come siamo arrivati alla cucina torinese di oggi partendo dalle basi. Certo, prima del Vintage sono esistiti molti altri ristoranti, ma questo è ancora qui a testimoniare non solo una Torino che fu, ma che ha ancora voglia di esserci. Perché non è solamente con il locale studiato dall’archistar del momento o con i menù contemporanei che strizzano l’occhio a vegani e salutisti che si scrivono le basi del futuro. Lo stantio lasciamolo agli altri (a parte il bagno che andrebbe rifatto) e godiamoci l’ebbrezza di buttare il cuore oltre l’ostacolo: non ripetendo frasi fatte, ma lasciandoci piacevolmente sorprendere da una cucina comme il faut, anche se non è sulla bocca di tutti i gastrofighetti del momento.