Non si sente parlare d’altro che dell’importanza di valorizzare al massimo le eccellenze agroalimentari italiane. Ovunque, tranne che negli aeroporti e nelle stazioni, ovvero il luogo da cui passano tutti i turisti che arrivano nel nostro Paese. Eppure siamo tutti d’accordo sul fatto che i piccoli artigiani dell’enogastronomia siano un enorme patrimonio italiano: lo dicono gli chef, lo confermano i gourmet, lo sa perfino la sora Maria che l’ha sentito dire in tv dal ministro della sovranità alimentare Lollobrigida. Abbiamo i prodotti più buoni del mondo, il know how gastronomico più buono del mondo, possiamo conquistare il mondo a suon di pizza napoletana e ricette tradizionali. E invece perché non siamo capaci di farlo? A saperlo. Il fatto è, però, che talvolta sembrano mancare proprio le basi per fare dell’enogastronomia il fulcro d’attrazione turistica italiana.
Cosa si mangia nelle stazioni e negli aeroporti italiani
Per capirlo basta andare in una qualsiasi stazione ferroviaria o in un qualsiasi aeroporto italiano e guardarsi intorno alla ricerca di qualcosa da mangiare (A Roma Termini è arrivata la catena di boulangerie Paul). Salvo qualche eccezione, quel che troverete sarà una mescolanza di McDonald’s, Chef Express, Burger King, Autogrill et similia. Catene, catene e ancora catene, spesso neanche rappresentative della tradizione enogastronomica italiana. Qua e là qualche isola felice c’è: l’area gastronomica del nuovo aeroporto di Linate, per esempio, è particolarmente varia e per questo invitante. All’aeroporto di Caselle (Torino) c’è Baladin. E a Milano Centrale puoi – per dire – prenderti un caffè e una pasta da un nome come Martesana. Ma il regime di grande prevalenza di alcune insegne in questi spazi, che pure sono il nostro biglietto da visita per milioni di turisti internazionali, è indubbio.
Molte di queste appartengono al gruppo Chef Express, che gestisce oltre duecento punti vendita in Italia tra stazioni ferroviarie, aeroporti e ristorazione autostradale. Tra questi ci sono moltissimi marchi diversi: alcuni dall’animo italianissimo (Alice Pizza, di cui è stata appena annunciata l’apertura di altri trenta punti vendita nei prossimi cinque anni), altri anche oggettivamente buoni (come la Piadina di Casa Maioli, da poco assaggiata alla Stazione di Santa Maria Novella di Firenze), altri – diciannove, per la precisione – facenti parte del gruppo McDonald’s, che Chef Express gestisce in licenza. Tra loro e Autogrill (che gestisce 16 punti vendita negli aeroporti europei e molti altri nelle stazioni, oltre ovviamente ai locali della rete autostradale) lo spazio per insegne della ristorazione differenti non sembra essere moltissimo.
E la politica?
Insomma, quando si scende da un treno italiano, nella maggior parte dei casi, si viene accolti da una catena appartenente ad un grande gruppo, che se va bene rappresenta in qualche modo un’offerta italiana (certo non piccola, né rappresentante di quell’eccellenza artigiana che tanto puntiamo a difendere a parole), oppure è un fast food di qualche tipo. Che pure talvolta fanno gli accordi con le filiere italiane e per questo vengono accolti a braccia aperte da alcune associazioni di categoria ma che, come fa notare anche Slow Food, non rappresentano precisamente il Made in Italy in senso tradizionale.
Eppure – dice anche il ministro Santanché – “l’enogastronomia è il futuro del turismo italiano” e “i gadget che portano con sé i turisti sono sempre più salami, formaggi, vini, sempre meno portachiavi”. Lei, che si indignava perché il consiglio di ministri di qualche anno fa ordinava cibo in un importante fast food americano, chissà cosa pensa dell’onnipresenza nelle catene (anche d’hamburger) nei punti più nevralgici del turismo nazionale?