Quando l’algoritmo ti vuole male, ti mostra i video cringe dei ristoranti e bar. Mi riferisco a quei contenuti di trenta-quaranta secondi caricati su TikTok, Facebook e Instagram al fine di promuovere l’attività di pasticcerie, pizzerie, salumerie e via dicendo. Spesso si tratta di esercizi “locali”, meno Roma e Milano e più Catania, Novara, Avellino, Rimini. Quasi sempre con scenette così cringe (dall’inglese to cringe, sentirsi imbarazzati e vergognarsi per qualcosa e/o qualcuno) da suscitare l’urgenza dell’investigazione sociologica.
Allora eccomi qua, malcapitata che da qualche tempo è diventata inspiegabilmente target di questi contenuti. Se all’inizio scrollavo scocciata, piano piano curiosità e fascino per questi corti caricaturali hanno preso il sopravvento. Fra stereotipi, sketch grotteschi, junk food e prezzi stracciati all’inverosimile, ho iniziato a farmi parecchie domande. Questi video funzionano? Quali sono i messaggi che traspaiono? E perché sono spesso problematici? Ci sono alternative? Ho provato, mio malgrado, a dare delle risposte.
Cos’è il cringe?
Fare video promozionali per la propria attività è una strategia vecchia quanto la macchina da presa. Normalmente bastano un bel sorriso, un piatto che faccia gola, uno slogan accattivante, le info utili. Eppure questa categoria di ristoratori ha in mente piani ben più grandiosi: scrittura e recitazione di scene da sitcom, ideazione di personaggi macchiettistici, prezzi e piatti sbattuti in faccia in stile pornografico.
Più si guarda questi video, più ci si rende conto di una serie di pattern o elementi ricorrenti, come se da nord a sud della penisola si fossero messi tutti d’accordo a farci rabbrividire. Intanto si percepisce chiaramente che è tutto fatto in casa: neanche l’ombra di un social media manager che possa salvare il salvabile. Così invece di un video fatto bene se ne postano dieci fatti male e recitati peggio. Il messaggio è sempre lo stesso: l’offerta imperdibile o il foodporn di turno, veicolato in modo creativamente grottesco.
C’è il titolare burbero che mangi sta minestra o salti sta finestra. C’è il cameriere esaurito che a fine giornata (ma anche inizio) manda tutti a quel paese. Oppure c’è quello che proprio non ha voglia, evidentemente sottoposto a chissà quanti altri ciak. Vengono riesumate le catchphrases (uno per tutti “Con mollica o senza?”) già rottamate ai tempi di Chi è Tatiana?! E poi una sfilza di battute trite e ritrite, frecciatine rivolte a haters e/o competitors , gli immancabili stereotipi. State certi che in questi metaversi la donna sta a dieta, il cliente è indeciso e petulante e, nel dubbio, va perculato.
Il cringe funziona?
Questi locali non puntano né alla viralità, né alla rilevanza nazionale. Dubito fortemente che un astigiano decida di fiondarsi a Caltanissetta perché spinto dal video artigianale del ristorantino di zona. L’obiettivo più immediato è quello di aumentare visibilità ed engagement con un pubblico già fidelizzato e attirare nuovi clienti con offerte e promozioni in un’area d’interesse circoscritto. Tutto sommato, considerate visualizzazioni e commenti, la risposta sembra essere positiva: il cringe funziona.
Chi chiede delucidazioni sul prezzo, sull’orario di apertura, chi esclama “Non vedo l’ora!” e tagga gli amici come a dire, andiamo? E allora ben vengano le trame palesi, le battute trite, le macchiette. D’altronde si sa che l’algoritmo si nutre di sentimenti negativi e risate a scapito di, per cui il cringe avrà sempre successo (lo dimostrano account come CasePacchiane e BOLO Paper che mostrano le bassezze social quotidiane). Tutto bene quel che finisce bene. Forse: perché poi inizio ad ascoltare i messaggi di queste scenette apparentemente innocue, e allora non rido più.
Cringe e messaggi problematici
Più si guarda questi video, più ci si rende conto di quanto poco sana sia la nostra relazione con il cibo. Nostra, e qui vi provoco, intesa come “italiana” nel senso dello storytelling che amiamo raccontarci, del tipo “i prodotti genuini, la dieta mediterranea, la cucina della nonna, eh ma come si mangia da noi, quelle americanate lì non le facciamo”. Che appunto rimane una favola, a giudicare da cosa e come viene presentato ciò che si mangia in questi luoghi. Ecco alcuni esempi:
- Prezzi stracciati: nessuno dice che per mangiare si debbano spendere cifre stellate, però la gara a spendere meno sempre e comunque deve finire. Perché qualità, filiera, lavoro intorno al cibo si pagano. Tanto più quando si tratta di prodotti animali, protagonisti quasi assoluti di questi video. Un tagliere stracolmo per due con spritz annesso a 1o€? Menu a 6 portate con vino a 40€? All you can eat di tutti i tipi a 15€? Pagare (troppo) poco non vuol dire pagare il giusto.
- Sostenibilità assente: attenzione, perché la sostenibilità non è solo ambientale, ma anche economica e sociale (in questo caso social). A prescindere dalla materia prima, bisogna sempre chiedersi il perché del pagare così poco e avere così tanto. Da dove proviene? Qual è la sua qualità? Chi la porta sul piatto dal produttore al cameriere viene compensato adeguatamente? Già che ci siamo: il tempo per queste decine di riprese è considerato extra?
- Junk food: questi video ne sono pieni zeppi. La formula estetica di abbondanza smisurata mista a salse e topping a profusione, impasti precotti, creme dolci industriali, friggere tutto pure le sedie è sempre vincente. Alla faccia della cucina “tipica” italiana.
- HACCP traballante: portare una telecamera in sala e cucina non è sempre una buona idea, basta guardare che succede a 4 Ristoranti. Spesso infatti la viralità rischia di diventare virulenta: guanti mai cambiati o assenti, capelli sciolti, unghie lunghe, gioielli a dito e polsi, taglieri non consoni. Speriamo che i NAS non stiano su TikTok.
- Stereotipi: cos’è il cringe senza luoghi comuni? Dai più “innocui” (la suocera, il cliente indeciso, il titolare burbero) ai più problematici: richieste alimentari ignorate, dipendenti trattati male, camerieri cafoni.
Ristoranti e social: qual è la soluzione?
La presenza sui social per un business è vitale, ma c’è differenza su come e quanto usarli. Il cringe generalmente funziona e, considerata la sua limitata diffusione, ci si accontenta del buon riscontro e morta là. Però è possibile farsi pubblicità senza per forza trasmettere un’immagine così triste e ridicola della ristorazione italiana?
La chiave è arrivare dritti al punto, d’altronde siamo qui per mangiare mica andare a teatro. La prima proposta è: cari ristoratori, non fate da voi ma affidatevi a un SMM. Con video un pelo più curati magari fate una figura migliore. La seconda: Instagram, ovvero la supremazia dell’immagine statica. Un post con i filtri giusti e la didascalia adatta (che racconti e informi) vale più di mille riprese. Meno fuffa e più sostanza, che poi vale anche per gli ingredienti di un menu pensato bene.
La terza proposta, tenetevi forte, è: non stare sui social. Quale baretto di paese ne ha bisogno quando ci sono già passaparola e orario affidabile su Google? Sarò estrema e provocatoria, ma pensate a quanti panettieri, trattorie, enoteche di fiducia frequentate senza aver mai cliccato sulla loro pagina. Siete sicuri che tutti, ma proprio tutti esistano anche online? E anche se fosse: è più importante che siano bravi a recitare su TikTok o che facciano bene il loro lavoro? A voi la risposta.