La montagna piace sempre di più, anche alla Guida Michelin. Cucine di territorio che valorizzano prodotti locali fortemente connessi alle culture del luogo e alla sostenibilità delle valli, ma che si spingono oltre guardando a connessioni e contaminazioni che provengono dalle storie e dalle esperienze personali degli chef alla guida dei nuovi stellati d’Italia. E se Norbert Niederkofler è (e resta) l’icona di quel Cook the Mountain basato sulla valorizzazione totale dell’identità locale, i giovani chef Michelin incoronati dalla sessantottesima edizione della rossa per eccellenza partono da vicino per guardare lontano. La montagna delle nuove generazioni è quella che regala prodotti d’eccellenza, spesso di nicchia, che raccontano di una filiera di resistenza che contribuisce alla vita della comunità, ma è anche quella che a questi prodotti abbina tecniche di alta cucina, menù bilanciati in grado di non appesantire troppo i commensali, sguardi verso l’Oriente capaci di portare al palato gusti nuovi, e di sorprendere.
La Stüa de Michil
È il caso di Simone Cantafio, da dicembre dello scorso anno alla guida de La Stüa de Michil di Corvara in Badia (Bz). Milanese di nascita, ma di origini calabresi, vanta esperienze in Australia al Quay Restaurant di Peter Guilmore, con Norbert Niederkofler al Saint Hubertus di San Cassiano, ma anche da Georges Blanc a Vonnas e da Cracco Peck a Milano. Il suo maestro è stato Gualtiero Marchesi con cui ha lavorato per tre anni a L’Albereta di Erbusco all’inizio della sua carriera. Nel 2010 il suo esordio con Michel Bras a Laguiole, esperienza che prosegue negli anni e che lo vede anche, dal 2015 e fino alla pandemia, a capo del Michel Bras Toya Japan Restaurant, il due stelle Michelin nella regione di Hokkaido in Giappone. Poi il ritorno in Italia, l’incontro con la famiglia Costa che gestisce questa struttura, che è anche hotel, da oltre cinquant’anni e, dopo soli undici mesi dall’apertura, l’arrivo della stella Michelin.
“Sono arrivato due mesi prima della riapertura – commenta Cantafio – e la prima cosa che ho fatto con la mia brigata è stata quella di girare l’Alto Adige a 360 gradi: un passaggio fondamentale per scoprire il territorio, ma anche per capire che la mia non poteva essere una pura cucina di montagna. Ho origini calabresi, ho vissuto per anni in Giappone e con le Dolomiti non ho questo rapporto di conoscenza profonda. Ecco perché nella mia cucina – aggiunge – ho prediletto di più quello che sono e che ho vissuto rispetto al dove sono e a quello che la gente si aspetta di trovare in montagna. Il mio essere tra nord e sud Italia, le mie esperienze all’estero e i prodotti del luogo sono la combinazione su cui si fondano i pilastri della nostra cucina di oggi”.
Cucina che ha uno sguardo internazionale, ma che usa super prodotti locali interpretati in modo personale. E così nascono piatti come quell’oca della Val di Funes che Cantafio serve con uno yakitori con funghi shiitake del Trentino abbinati a una salsa di fegato d’oca alla veneziana e cipolle di Tropea leggermente in agrodolce, oppure il risotto stratificato con alla base una salsa di speck e rafano (quindi Alto Adige al 100%), su cui viene messo il risotto mantecato al sedano rapa e quindi, a seguire, scaglie di sedano rapa croccanti, tartufo grattugiato, erba cipollina e tuorlo d’uovo. O ancora i ravioli di patate (della Val Pusteria) farciti con coniglio in porchetta in abbinamento a una giardiniera di finocchio e salsa iodata. Contaminazioni, dunque, che vengono inserite a tecniche e ricette fornendo uno sguardo nuovo sulla montagna e della montagna.
RistoranTino Rollieres
Succede in modo analogo in alta Val di Susa, in provincia di Torino, dove Martino Leone, ex azzurro di sci e cuoco autodidatta, porta la stella in quel di Sauze di Cesana nella piccola frazione di Rollieres. Il locale apre nel 2013 (dal 2007 invece Leone gestisce anche la pizzeria Fra Martino di Cesana Torinese) e da subito si attesta come meta gourmet della valle. Dopo il covid la ristrutturazione dei locali e un’evoluzione costante che porta a un servizio solo serale in cui le portate sono un di cui di un’esperienza che si sviluppa tra sala, cucina, ambiente e musica. Quella di Leone, classe 1983, è una cucina sincera, frutto di studi costanti e rispetto totale di una materia prima che racconta di piatti in continua evoluzione.
Non tutte le portate del Ristorantino di Rollieres guardano alla montagna, ma la montagna c’è e si sente. Ecco piatti come Dalla malga al burro: “In estate trasformiamo il latte di malga – racconta il neo chef Michelin – in panna che lavoriamo per ottenere il burro che andiamo poi a servire con l’aringa, oppure prepariamo un risotto ai licheni che raccogliamo sugli alberi nella nostra valle. Dai licheni – prosegue – otteniamo un brodo con cui cuociamo il riso che poi mantechiamo con burro acido ed erbe di montagna per poi finire il piatto con aglio nero fermentato e vegetali locali che essicchiamo e polverizziamo”.
Le carni spesso sono quelle di animali da cortile del posto, poi ci sono le api, il miele locale e le uova delle galline nostrane. “In inverno – prosegue Leone – cuciniamo molto il cervo: ne facciamo un filetto che mariniamo e poi lavoriamo agli ultrasuoni, quindi lo avvolgiamo in crosta di pasta sfoglia e lo cuociamo in forno”. Ma qui servono anche lo spaghetto all’ostrica o quello al pomodoro (la cui salsa è frutto di una settimana di stratificazione di differenti pomodori) e non mancano gli spunti orientali, le fermentazioni, l’uso di spezie, brodi dashi o miso ricavato da fagioli e che viene personalizzato con i “gusti” del territorio locale.
“Non credo nel mettere i paletti – aggiunge Leone – a quale sia il futuro della cucina di montagna. Amo sviluppare molto i piatti da un punto di vista tecnico: prima dell’estetica punto alla grammatica del gusto e ho capito che utilizzando la contaminazione orientale si creano percezioni nuove ancora da scoprire e che, abbinate a carni di montagna, danno risultati diversi che vanno ad alleggerire la cucina locale spesso caratterizzata da cotture lunghe e salse importanti. La mia evoluzione personale – conclude – è verso una cucina leggera, digeribile, salubre (da buon sportivo, ndr) e per questo sono molto attento che il menù abbia sempre un bilanciamento calorico adeguato”.
Caffè Nazionale
Altra valle, altra stella. Paolo Griffa lo scorso agosto dal Petit Royal di Coumayeur approda nel pieno centro di Aosta con un progetto (suo) ambizioso quanto bello: il Caffè Nazionale. Il locale si sviluppa su oltre 600 mq e conta un ristorante di alta cucina (con cui ha appena preso la stella Michelin) articolato in tre sale, tra cui una cappella del 1300, un privé allestito sopra il foro romano, una pasticceria e un cocktail bar completo di dehors, laboratori di pasticceria e cucina visitabili, oltre a una cantina dedicata all’affinamento di più di 2500 grandi vini. La sua cucina al Caffè Nazionale è fedele al fil rouge sviluppato al Petit Royal di Courmayeur tra novembre 2017 e agosto 2022: un inno alle materie prime della Valle d’Aosta e alle loro stagionalità.
“Rispetto al lavoro portato avanti a Courmayeur, qui stiamo riscoprendo le quattro stagioni con tutto ciò che la terra offre. In alta valle eravamo obbligati – spiega Griffa – a fare scorte estive per usarle in inverno, qui lavoriamo con prodotti freschi e abbiamo un nuovo mondo gastronomico da scoprire”.
Le patate restano quelle di Gressoney dell’azienda Paysage à Manger che ne coltiva oltre 80 varietà: le vitelotte (le viola) al Caffè Nazionale sono protagoniste di un piatto che le vede cotte con sciroppo alla viola, salsa al cavolo viola e senape, caviale e latte fermentato servito con aneto. Lo storione, che Griffa acquista anche nell’allevamento di Morgex, viene servito alla mugnaia e il limone è sostituito con il vin clair di Prié Blanc sempre di Morgex e salsa di levistico (sedano di montagna); il cervo della kiuva di Arnad cacciato nelle valli è laccato con resina di pino preparata dalla brigata e servito con verdure che provengono dall’orto dell’Institut Agricole Régional di Aosta che lavora da sempre sulla sperimentazione e sulla valorizzazione delle produzioni locali.
“Lavorare in montagna – spiega Paolo Griffa – vuol dire scendere a compromessi: a Milano in 24 ore posso avere qualsiasi materia prima proveniente da ogni parte del mondo; qui devo pianificare, essere disposto a fare scorte e sempre più consapevole di ciò che mi può servire perché con l’arrivo dell’inverno qui gela e la natura non offre più nulla. Certo – aggiunge – non mi precludo la possibilità di usare prodotti che arrivino anche da fuori, ma cerco di avere uno sguardo molto puntato sulla produzione locale e sulla disponibilità del momento che ci regala il territorio”