E’ stagione di guide –settimana prossima tocca a Michelin: ci sarà un nuovo tristellato?– e tanti si fanno una domanda importante: ma la critica considera il conto?
Cioè: un recensore, nella propria valutazione, fa pesare anche quanto costa il pasto?
Come fai a giudicare un ristorante se non paghi il conto?
La domanda non è peregrina e merita risposta. Io, negli anni, mi son fatto un’idea.
La “critica della razion pura”, cioè quella che valuta solo il piatto – come, da sempre, afferma di fare Michelin e con lei tante altre – del conto se ne impippa.
Ed è giusto.
Non è che per dire la propria su Tintoretto, Rembrandt o Pollock uno storico dell’arte guardi quanto costa il quadro. “Bello questo Caravaggio. Certo, un po’ caro, però…”.
La “critica della razion pura” considera solo materia, esecuzione, ispirazione; tutto il resto è noia. Anche perché i critici non vivono il vero brivido del conto, visto che non lo pagano (non pensate male: intendo che è rimborsato, almeno parzialmente).
Tuttavia a noi miseri mortali interessa di più la “critica della razion pratica”, cioè quella recensione che ha poi una ricaduta operativa nelle nostre vite. Un Picasso non lo compreremo mai; a cena in uno stellato può capitare d’andarci.
La “critica della razion pratica” è più simile alla divulgazione (già ebbi occasione di parlare di questo) e diamine se tiene in considerazione il conto.
Se si deve decidere dove andar a mangiare, il rapporto qualità/prezzo entra mostruosamente con i piedi nel piatto. Se un ristornate da, diciamo, 80 punti costa 100 euro e uno da 79 ne costa 50, non avremmo dubbi (semplificando, naturalmente).
Ci vorrebbe una formula che permettesse non solo di valutare i campioni assoluti ma anche quelli in rapporto al costo.
Bellezza e verità non hanno prezzo. Ma quando ti arriva l’addition, è la somma che fa il totale della felicità.