Carbonare sottovuoto, spaghetti cotti in distillato di pomodoro e datterini confit, aglio olio e peperoncino con capsicum da mezzo mondo: i piatti più primordiali della nostra cucina sono da sempre oggetto di rivisitazioni più o meno avventurose e variamente riuscite da parte degli chef gastrofregni, temi da affrontare per un mix di nostalgia, appeal sul cliente e atti dovuti. Però, cari chef, provate a fare la pasta in bianco se avete le palle.
Perché vedete, c’è un archetipo del piatto di pasta, un minimo comun denominatore che non ha apparentemente avuto il suo momento di gloria ma esiste da sempre, emergendo qua e là, facendo leva su un immaginario trasversale e amplissimo, fatto di fissazioni alimentari infantili, piatti raffazzonati per fretta e disperazione, mense ospedaliere persino. La pasta in bianco, per l’appunto. Olio o burro e Grana, Parmigiano o pecorino, nient’altro.
Ci vuole del coraggio ad avere pretese di fine dining e proporre un piatto così. Già me li vedo su Tripadvisor quelli che “la pashta in biango me la mangio a kasaaah!!1!!1”. E ho infatti notato da subito, mentre facevo il mio brainstorming solitario pensando alle paste in bianco gourmet che conoscevo, che è proprio il coraggio il filo conduttore che unisce tutti gli autori menzionati: ognuno, a modo suo, è interprete di una cucina senza compromessi, coerente fino all’estremo, fino al mettere in carta, tra foie gras, astici e Wagyu, il piatto simbolo del frigo vuoto.
Dalle mense ospedaliere alla librazione del gourmet concettuale: mica male per una pasta in bianco, ma decisamente non per tutti.
Poiché la pasta in bianco tornerà ad essere un trend, nel piccolo mondo gourmet, non appena Mauro Uliassi presenterà la sua, all’interno del Lab 2020 (il suo percorso degustazione, Covid-19 permettendo), voglio ripercorrere con voi le paste in bianco “gourmet” che hanno lasciato il segno.
Il precursore: Gualtiero Marchesi e le quattro paste
Anno 2000 tondo tondo, in pieno periodo Franciacortino, a sette anni dall’inaugurazione de “l’Albereta di Gualtiero Marchesi”. L’ispirazione, come spesso accade nella genesi dei piatti del Maestro, parte dal mondo dell’arte, in questo caso il celeberrimo dittico Marilyn di Andy Warhol. Non potendo evidentemente modulare i cromatismi, sono le forme (o meglio, i formati) a declinare texture e consistenze. Solo un extravergine delicato e una spolverata di pecorino per meglio apprezzare il tutto. Ci vedo anche un pizzico della sua malizia iconoclasta dei tempi di Bonvesin della Riva: “Ah, vi piacciono i carboidrati eh? Tiè”.
Il gourmet: Alfredo Russo, Pasta in bianco olio e Parmigiano
Un piatto da cui è nata parte della cifra stilistica dello chef del Dolce Stil Novo, la rielaborazione golosissima di piatti della cucina quotidiana. Ed è partito tutto da qui, dalla pasta in bianco, intuizione sviluppata già nella prima incarnazione del suo ristorante, quella a Ciriè, e immancabile anche nella nuova “lochescion”, a buon diritto tra le più invidiate d’Italia, la maestosa Reggia di Venaria Reale. Rielaborazione, va detto, tanto riuscita quanto ardita: la pasta (ben rinforzata da abbondanti tuorli, ovviamente), in una miriade di strati sottilissimi funge da architettura a sorreggere quella che a tutti gli effetti può essere considerata una composizione di Parmigiano. Strati su strati di crema cotta, su tutto la sua spuma, e un contrasto croccante di formaggio e pistacchio. Se capiterete da queste parti guardate anche come è stato rivisto il passato di verdura e mi ringrazierete.
Il postmoderno: Paolo Lopriore e gli elicoidali cacio e pepe
Sul fatto che la cacio e pepe non sia da considerare una pasta in bianco non voglio nemmeno discutere coi talebani del più minimalista tra gli elementi della trimurti del carboidrato romano. E non vuole farlo nemmeno Paolo Lopriore che la usa come pretesto per presentare un compendio di tutto quello che lo ha reso il Ronaldinho della cucina italiana, oltre che l’allievo prediletto di Marchesi. C’è l’inversione spaziale dei ruoli, voi la spolverata di pecorino la mettete sopra? E io la metto sotto. La tendenza a nascondere gli elementi portanti del piatto: cosa vi piace della cacio e pepe, la cremetta? E qui non la vedete! Abbiamo ovviamente la tecnica siderale in cui la spezia è un’infusione resa cremosa (non la vedete ma c’è!) con l’agar, in una composizione elegantissima, intellettuale e controintuitiva com’è la firma di Paolo.
Il predessert: Gianluca Gorini e lo spaghetto alla genziana
E Gianluca Gorini, che di Lopriore è l’erede, forse più pop ma di certo non più ruffiano, non poteva che continuare il discorso da par suo. L’ultima forchettata prima del dessert, 20gr di pasta, che racchiudono il gastro-tamarrismo del gin tonic, l’universalità della pasta in bianco, la rusticità -nobilitata dall’amaro- della cacio e pepe. Ci parla di cucina classica, partendo dall’acidità di un beurre blanc per estrarre la radice di genziana, e di grande consapevolezza sensoriale usando l’umami del pecorino per arrotondare gli spigoli. Un colpo di teatro magistrale, malizioso e ironico.
Il localista: Alfio Ghezzi e l’insolito trentino
Non poteva mancare una declinazione ispirata dal territorio, o per meglio dire da un terroir. Alfio Ghezzi, forte di un’esperienza storica da Andrea Berton, dal quale ha ereditato il pragmatismo con cui declinare una perfezione dalla semplicità apparentemente disarmante, ai tempi bistellati della Locanda Margon, dedica alla sua terra e al blasone della sua maison proprio una pasta in bianco: “Insolito Trentino” è uno spaghetto Monograno Felicetti, condito con olio extravergine Uliva della Cantina Frantoio di Riva del Garda, mantecato con Trentingrana, cotto in un liquido aromatico a base di Ferrari Perlé.
L’illusionista: Luca Natalini e le sue paste in bianco
Il suo Autem ahimé, è caduto vittima del Covid (o almeno questa è la versione ufficiale a cui ci atteniamo), ma la vivacità di Luca aveva già fornito diversi temi da sviscerare, e forse dobbiamo a lui il ritorno all’attualità della pasta in bianco. Ne ho assaggiate due, la primigenia in crema di mandorle, e l’ultima versione con vermuth alle prugne, aceto di riso e alloro bruciato, in cui lo spaghetto è totalmente nudo: niente spolverate di qualcosa dalla microplane, niente salse, nemmeno un petalo di un fiore, per quanto candido. Non sono rivisitazioni di piatti dell’infanzia, ma esercizi raffinatissimi in cui sotto un’essenzialità apparente si nasconde una complessità sottesa dall’intreccio tra acidità, fruttati, dolce e amaro.
L’infanzia reale: Alberto Gipponi e il “senza niente dentro”
Una simulazione d’infanzia reale, anzi, biografica. È il figlio del patron di Dina ad ispirare il piatto, essendo passato anche lui, come tutti, dalla fase “pasta scondita”, ribattezzata “col senza niente dentro”. Alberto comunque la condiva in qualche modo, e da qui l’intuizione di estremizzare questo concetto. Il condimento, il “senza niente” appunto, è dentro, una crema di aglio, Grana Padano e burro, l’esterno spennellato con il grasso di pancetta, il tutto veicolato da una pasta fatta su misura per Dina da Gerardo di Nola, servita scotta e fredda, come sembra piacere ai marmocchi. È un piatto che non troverete più da Dina, o almeno non in questa forma, in quanto rappresentativo della fase più narrativa della cucina del Gippo, ora orientato verso altri lidi. Visto come viaggia il suo pensiero, non è escluso che prima della riapertura dei ristoranti ci saremo già persi almeno altre due o tre sue fasi culinarie, ma stare appresso alla sua evoluzione è parte integrante della sua espressione gastronomica.
Quel buon sapore: Giuseppe Iannotti e la pastina con il formaggino
Grazie a quel geniaccio di Giuseppe Iannotti, Telese Terme è uno degli avamposti dell’avanguardia gastronomica italiana e non solo. C’era da immaginarselo che nelle sue mani il tema della pasta in bianco venisse portato alle estreme conseguenze, di più, che si pescasse nel torbido. Perché insomma, se con un grasso di qualità dignitosa e un Grana o un Parmigiano decenti la pasta in bianco tout court può anche essere golosa a suo modo, la pastina col formaggino è un soggetto impietoso a cui rendere omaggio. Giuseppe lo fa da par suo, veicolando la Campania tutta con tecnica e ricerca, con una cagliata di latte e panna di bufala che avvolge i risoni come farebbe un brodo “ispessito”, diciamo così, dalla fatidica fettina di vario materiale caseario e polifosfati. Le stoviglie della Chicco con cui immergersi nell’esperienza meritano una menzione a sé.
Il futuro: Mauro Uliassi e il Lab che verrà
I lavori per il Lab dell’anno prossimo sono stati bruscamente interrotti dai lockdown, ma uno dei piatti che troveremo nel degustazione più ambito dagli italiani edizione 2021 sarà proprio una pasta in bianco. Impossibile, giustamente, estorcergli degli spoiler, trattandosi anche di una versione non definitiva, ma una chiacchierata con Mauro stuzzica sempre l’immaginazione: “mi ha ispirato un parallelo che ho sentito tra la pasta in bianco e l’atto amoroso, e di come sia l’assenza di sovrastrutture a rendere il tutto più piacevole. All’apparenza sembrerà a tutti gli effetti una pasta in bianco, ma sarà tutta un’altra cosa”. Vedremo se dopo l’occhio di agnello riuscirà a fare di una pasta in bianco il piatto più condiviso di quest’anno sui social gastrofregni.