Tutti noi abbiamo un ristorante del cuore, un luogo dove pranzare che è una sorta di luogo dove ritemprarci, una sorta di cucina dello spirito.
E di questi luoghi amiamo non solo la bontà e la qualità di piatti e pietanze, ma anche l’ambiente, il mood. Amiamo cioè i ristoranti che appagano anche il nostro bisogno di tranquillità. E non si tratta solo di atmosfera, ambiente, intimità con il paesaggio, con la cucina, con lo chef, ma di tutto un insieme di questi elementi, soprattutto di intimità.
Un momento, hai detto “intimità”?
In realtà, da qualche anno sono sbucati come funghi, nelle grandi città così come nei paesi più sperduti, ristoranti con l’esecrabile abitudine di farci accomodare in grandi tavolate, tutti insieme appassionatamente disposti in fila per due.
E vicino, di fianco e davanti a noi, emeriti sconosciuti. Che bellezza, due ore faccia a faccia con persone mai viste in vita tua!
È l’insostenibile moda del tavolo sociale, che tutti subiamo in quanto affermare a pieni polmoni che fa tanto mensa scolastica o aziendale, in questi tempi di condivisione e socialità, farebbe di noi dei residuati bellici.
Cose che accadono nei ristoranti verso cui saremo ostili per tutto il 2017
Ma l’uso di pranzare tutti allegramente riuniti allo stesso tavolo non è certo una moda attuale.
Nell’Europa del XVIII secolo era considerata una specie di “equalizzatore sociale”; è stata inoltre anche una tendenza diffusa negli USA durante il XIX secolo, in particolare a New York.
Il motivo di tanta fortuna? Il tavolo social in realtà non è certo lì per fare da mediatore sociale ma semplicemente perché conviene.
Ai ristoratori, ovvio, che riescono così a fare accomodare due volte il numero di clienti consentito dai tavoli ordinari. Conviene invece molto meno a noi clienti, che pigiati come sardine in un monolocale troppo piccolo affollato di studenti, ci ritroviamo costretti a esibire la nostra goffa attività masticatoria al cospetto di un indistinto magma umano pure all’ora di pranzo.
Com’è capitato alla sottoscritta.
Con un’amica che non vedo da anni entro in un ristorante da poco convertito alla moda del tavolo sociale. A mia insaputa, ovviamente.
In breve ci ritroviamo con le gambe sotto un grande tavolo comune, prima vuoto, poi preso d’assalto da commensali accerchianti. E la cosa più imbarazzante è stata senza dubbio ostentare indifferenza nonostante la prossimità, a 20 centimetri dal nostro naso, di emeriti sconosciuti, imbarazzati quanto noi e parimenti impegnati a ostentare la nostra stessa indifferenza.
Svanita così in un amen la speranza di raccontarsi in pace i fatti propri, con la mia amica intavoliamo discorsi banali, così come si conviene in presenza di sconosciuti. Ma il maggiore problema del tavolo sociale è che non sei tu a decidere chi si siede accanto, se un piacevole conversatore o il primo stron*o che capita. A noi, sempre fortunate, capita un impiccione.
“Che bello siamo vicini, questo significa che per la prossima ora saremo amici del cuore? ” (No.) “Wow, non vi vedevate da cinque anni?! Quando vi siete conosciute? Siete o non siete super contente? “(Sì, ma non vogliamo parlarne con te.)
Il colmo? Quando l’impiccione chiede senza tanti problemi di prendere una forchettata dal mio piatto offrendo in cambio un assaggio dei suoi spaghetti di soia.
Stiamo al gioco, finiamo di mangiare alla svelta e usciamo, andando a sederci sulla prima panchina libera per raccontarci i fatti nostri in santa pace. E ritenendoci anche fortunate: pensa se ci fossero capitati per vicini dei bambini urlanti intenti a lanciarsi palline di mollica assecondati da genitori troppi permissivi! Ma nonostante la fortuna capitataci, rimaniamo con il fermo proposito di non mettere mai più piede in quel locale.
Perchè la socialità è e deve rimanere un piacere, non un obbligo a cui sottostare per il maggior profitto del locale: mi dispiace per le vostre tasche, intraprendenti ristoratori.