Perché parliamo di Paolo Valentino? Non è uno chef giovane, stellato, contemporaneo e retrò allo stesso tempo, neanche il divo emergente del tubo catodico trasformato in canale digerente.
E allora perché.
Perché ieri il giornalista (col tic della buona cucina) che racconta sul Corriere i grandi fatti del mondo, letta sul New York Times la potente stroncatura di un’istituzione come il Per Se dello chef Thomas Keller firmata Pete Wells, che del quotidiano americano è la prima firma gastronomica, ha scritto questo tweet:
Ciò che fa del @nytimes un grande giornale:il coraggio di stroncare un celebre ristorante (se se lo merita) https://t.co/deuacAihtY
— paolo f valentino (@pfvalentino) 13 Gennaio 2016
Okay, forse l’enfasi di Valentino è un po’ esagerata, ma per capirsi, è come se domani il Corriere stroncasse con grande evidenza il ristorante milanese di Cracco. Però elevato all’ennesima potenza.
Aperto nel 2014 2004, tre stelle Michelin, Per se era e continua a essere uno dei ristoranti più costosi degli Stati Uniti, dove per cenare in due, con vino in abbinamento, tasse e mance si superano anche i 1000 dollari.
Ne vale la pena? Fino a 5 anni fa buona parte della critica americana avrebbe risposto entusiasta di sì. Oggi molto meno, il lusso del Per Se pare non essersi evoluto come i prezzi.
Ma non è facile scriverlo a chiare lettere, per di più sul New York Times. Riesce a farlo la critica gastronomica americana al suo meglio, seria, con la schiena dritta, poco corruttibile .
Diversa da quella italiana che con gli chef convive, ha spesso debiti di amicizia con loro, è meno libera di dire quello che pensa.
Ma cos’ha scritto precisamente Pete Wells sul New York Times?
Innanzitutto ha retrocesso il ristorante da 4 stelle (cioè il massimo) a 2, notando subito che il prezzo del menu degustazione è vistosamente aumentato: da 150 a 315 dollari, servizio e mance inclusi. A quel prezzo, dovrebbe essere tutto perfetto.
Invece no.
Eli Kaimeh, attuale chef del Per Se presenta un menu con alcune innovazioni e molti classici, come tartare di salmone in cialda, budino di tapioca salato con topping di caviale e ostriche calde.
Pete Wells non gradisce il cilindro di quaglia ricoperto di bacon. O meglio, da solo sarebbe passato: quel che non va è una poltigliosa base di lattuga romana che rilascia un acquitrino nel piatto.
Stravaganti anche le carote in salamoia e arachidi in crepe salata. Cosa avrà mai voluto combinare lo chef?
Keller va contro i suoi stessi principi – espressi nel libro The French Laundry Cookbook – secondo i quali le carni dell’aragosta vanno cotte a fuoco lento per essere morbide come burro. Peccato che il crostaceo presentato al tavolo risultasse gommoso.
Note positive, ovviamente, ce ne sono. Dopotutto parliamo di Thomas Keller. La spigola europea ricoperta di scaglie di patate con riduzione di vino rosso egli agnolotti ripieni di mascarpone sono l’acme del piacere gastronomico.
Ma il vero brivido che si dovrebbe provare di continuo in un ristorante del genere arriva una volta sola, una. Per la precisione nel caviale con gelatina di sarda pressato tra foglie di alghe: un vecchio trucco giapponese chiamato kobu-jime.
Peccato che questa portata, non prevista nel menu degustazione, oltre a un risotto con burro fuso e formaggio Castelmagno, siano costati un’aggiunta rispettivamente di 75 dollari e di 175.
Ecco allora affiorare l’indignazione che spazza via le poche note positive.
Come se non bastasse: personale scortese e distante. Le richieste di aggiunte come signore, gradisce un’insalata? (per 40 dollari) hanno il suono di una minaccia. Infine il sommelier dai movimenti sgraziati che non accetta critiche alla scelta dei vini.
“Hanno sostituito l’insegnante di danza con quello di rugby?”.
Alla fine le parole più usate da Pete Wells per descrivere la cucina di Thomas Keller sono: “gommosa”, “insapore”, “pastosa”, “appiccicosa”, “acquitrino”, “zoppicante”, “scoraggiante”.
Dite la verità, sarebbe possibile secondo voi leggerle tutte insieme in una recensione del Corriere della Sera sul ristorante milanese di Carlo Cracco?
[Crediti: link e immagini: New York Times, Eater]