Anche in cucina, mode e tendenze stancano. Persino quando sono buone, quando hanno un’idea dietro. A vincere è solo il primo che ha avuto quell’idea. Il secondo che la usa forse vive di luce riflessa, ma il terzo puzza già di naftalina.
Cari ristoratori, io e voi dobbiamo parlare. Smettetela di seguire per forza quel che va per la maggiore. Le frattaglie sono cool? Bene, allora riempiamo la carta di rognone e animelle. La rivoluzione è nell’azoto liquido? Trasformiamo in molecolare pure la pasta al sugo della nonna.
No, non va bene. Soprattutto a chi, per lavoro o per passione, mangia più spesso al ristorante che a casa propria.
Ci sono cose che accadono nei vostri locali verso cui sarò guardinga per tutto il 2017. Ingredienti, modi di dire, modi di fare che sopporto a stento.
Pesi sullo stomaco che è arrivato il momento di levarsi.
1. Chilometro Zero
L’abbiamo capito che “buono, pulito e giusto” significa preferibilmente anche vicino. Certo, è impossibile non apprezzare gli chef che coltivano nell’orto dietro al ristorante quel che cucinano. Ma dobbiamo intenderci meglio sull’impiego di prodotti a chilometro zero.
Perché se da un lato è corretto non cercare le fragole a dicembre facendole arrivare da chissà dove, dall’altro se voglio mettere in carta il baccalà migliore del mondo forse lo farò arrivare dalla Norvegia.
Insomma, ben venga il buon senso, ma non tarpate le ali all’estro degli chef (e alla nostra curiosità gastronomica).
2. Il termine “gourmet” applicato a sproposito
La pizza è gourmet. L’hamburger è gourmet. Perfino il kebab zozzone che sta aperto fino alle quattro del mattino per placare la nostra fame chimica è gourmet.
Basta, è ora di darci una calmata! Parliamo di prodotti buoni o non buoni, inventiamoci dei nuovi aggettivi invece di indulgere pigramente nel solito “gourmet” (vale anche per Dissapore, ovviamente).
La pizza è pizza, l’hamburger è hamburger, e i gourmet spesso sono più falsi di una moneta da tre euro.
3. Il sedicente celiaco
Sono letteralmente infuriata con i sedicenti celiaci che ripuliscono le cozze al pangrattato del vicino di tavola, o sforchettano giulivi nella pasta della fidanzata. “Non si preoccupi non sono proprio celiaco, preferisco mangiare senza glutine”.
Considerato ciò che succede nella cucina di un ristorante ogni qual volta un cliente afferma di essere celiaco (viene pulita una zona della cucina, un addetto –cambiata la giacca e lavate le mani– si dedica solo a preparare il cibo per il celiaco…) capite anche voi perché girano al personale del ristorante e parecchio anche a noi.
4. Oro alimentare
Dal punto di vista del sapore non aggiunge né toglie nulla ai piatti che mangiamo. Detta come sta: non è buono. Esteticamente piace ai bambini e agli entusiasti di Instagram, cosa che ai piatti dorati assicura l’inevitabile quarto d’ora di celebrità virale.
Ma cari chef, di vaglia, aspiranti o domestici che siate: tutto quell’oro fa tanto anni Ottanta. E gli anni Ottanta, fatevene una ragione, non andavano di moda neanche negli anni Ottanta.
5. Piatti di ardesia
Quand’è la prima volta che li abbiamo visti? Non me lo ricordo neanche più. Erano carini, all’inizio. Eleganti, con tutto quel nero da sporcare con salse e ingredienti.
Ora siamo esasperati. Quando la forchetta tocca l’ardesia, in quei piatti a forma di disco volante con la conca al centro, o peggio ancora di tavoletta, tanto inutile e scomoda da farti venire voglia di spaccarla in testa a chi l’ha inventata, il fastidio rischia di essere lo stesso del gesso che stride sulla lavagna.
6. Distese di foglie d’erba
Va bene la cucina nordica, va bene la riscoperta dei sapori della terra, ma francamente iniziamo a non poterne più di trovare nel piatto centocinquanta tipi di foglie diverse.
Basta, vi prego, con questa ricerca degli ingredienti sotto i cespugli verdi. E basta pure con le insalate creative. Andiamo, io non sono una capretta, e voi non siete Enrico Crippa.
7. I fuori menu proposti al tavolo
Hey, hey, hey cameriere, guardami: non sono un pollo da spennare.
Desidera un aperitivo? Sì, certo. Ma desidero soprattutto sapere quanto mi costerà. Che sia il menu del giorno di una trattoria, o una proposta extra in un ristorante top, ricordatevelo sempre, abbiamo il diritto di scegliere quanto spendere.
8. L’importante è mangiare (tanto)
Iniziamo a capirlo, che è meglio puntare sulla qualità. Un tempo, a far valere la voce della quantità erano i “giro-pizza”, “giro-hamburger”, “giro-pasta” e compagnia bella, frequentati per lo più da una clientela giovane e con stomaco d’amianto.
Ora, gli all you can eat di sushi attirano un target trasversale, attenzione però, non vorrei dire noi l’avevamo detto ma… noi l’abbiamo detto: Se pagate il sushi come una pizza cosa pensate di mangiare?
Dovrebbe essere chiaro che spesso, spendendo le stesse cifre, è preferibile mangiare meno, ma mangiare meglio. E non è soltanto una questione di soldi.
9. La dittatura delle birre artigianali e dei vini biodinamici
Ero a cena con un amico, grande appassionato di cucina e professionista della ristorazione. Ci hanno proposto un vino biodinamico. L’amico ama le espressioni colorite, si perde il gusto della battuta ma devo per forza parafrasarla. Il senso è questo: al cameriere che gli mostrava l’etichetta ha detto grazie, va bene, purché non sia una schifezza.
La morale? Benissimo l’attenzione al processo di lavorazione, ma quel che conta più di tutto è il gusto (che poi, a volte, con la pizza ci sta bene una Moretti da 66, punto e basta, ma su questo punto la redazione si dissocia).
10. Ancora piatti scomposti o destrutturati? No, seriamente…
Simpatico, vivisezionare una ricetta. Parliamo della prima volta che ci hanno proposto un piatto “scomposto”, ovviamente.
La seconda volta già ci siamo impigriti: dica allo chef che non ho nessuna voglia di ricomporlo io, grazie. Che poi, se lo chef raccomanda comunque di mangiare tutti gli ingredienti insieme, mi spiegate perché presentarmeli separatamente?
E’ una cosa senza senso, una delle tante che accadono nei ristoranti verso cui sarò ostile e guardinga per tutto il 2017.