Trippa di qui, Trippa di là, di sù, di giù e pure di fianco.
La stampa di settore da mesi tartassa il web con uno dei casi gastronomici milanesi: Trippa, per l’appunto.
Trattasi di trattoria verace nel vecchio senso del termine, ma con piglio contemporaneo, ammantata da un’aura quasi magica, visto che tutti i critici e le genti del food ne hanno scritto meraviglie da occhi a cuoricino.
Ma le iperboli e le mirabolanti avventure dei Trippini mi sembravano un po’ troppo cariche.
Tanto che a un certo punto, prima di ieri sera per essere precisa, ho addirittura pensato che avessero qualche santo in paradiso, quelli di Trippa, visto che non ne ho mai sentito dire che bene.
Sempre bene, solo bene.
I casi sono due: o i sopracitati santi in paradiso, che sono cosa rara, o da Trippa lavorano bene e sanno conquistare cuori a raffica.
La risposta l’ho avuta dopo la mia cena lì in solitaria, un’esperienza sociologica e gastronomica che, ve lo dico subito, mi catapulta tra la schiera umana appena citata dei palati soddisfatti.
Prenoto, dico che sono sola e mi chiedono se il bancone vista cucina può starmi bene. “Benone”, penso io, almeno ho lo spettacolo ipnotizzante della brigata sotto il naso (potrei stare a guardarli per ore, ognuno ha le proprie ossessioni).
Sono seduta da un minuto e scopro di conoscere la persona accanto a me sul bancone: mi sento meno sola, ma tu guarda il destino.
Il posto, complice il grandangolo da social media, è più piccolo di quanto mi aspettassi: è raccolto, diviso in due salette, caloroso e accogliente come se ci fosse un camino acceso.
Trippa è bella perché pare uscita dal passato, pochi fronzoli di quelli che piacciono oggi, nessuna lavagna alle pareti, niente divise da soldatini globalizzati per il personale.
Semplice per davvero, come una trattoria che si definisca tale dovrebbe essere, senza frizzi e lazzi d’autore, ma solo disseminata di piccoli particolari vintage.
Non che il rétro sia una novità, ma a Milano ci sono ristoranti più simili ad antiquari che a trattorie, o ancora peggio quelli in cui gli oggetti del passato sono quelli di oggi in stile finto vecchio: insomma, una porcheria.
Qui invece, tra sedie normali, tovagliette di carta normali, nulla di troppo appariscente e ostentato, sembra la vecchia casa che la vecchia zia non usa mai.
In carta ci sono antipasti interessanti (dai 9 ai 12 euro) come la cocotte di broccolo fiolaro e tastasal, primi di paste e zuppe (10-12 euro) e secondi come se piovesse (15-18 euro), dalla trippa alle lumache, dalla vitella Fassona di Martini al pescato del giorno.
Insomma piatti da trattoria old school e ricette un po’ più patinate.
Il mio dramma, come sempre, sono i fuori carta: sono tanti, ed elencati tutti insieme mi mandano in tilt, soprattutto quando ho fame e vorrei mangiare di tutto. Quindi mi lascio consigliare, sono nuova qui e ho bisogno di una spalla, se no rischio di ordinare con gli occhi più grandi della bocca.
Come antipasto il vitello tonnato, mi spiegano, è già diventato una specie di cult, bisogna assaggiarlo per forza se no non puoi dire di essere stato da Trippa.
L’antipasto dei campioni è una porzione non certo per signorine di vitello tonnato che, se nell’aspetto è più simile ad un roast beef, in bocca insieme alla salsa, ai capperi, al pepe e al fondo è come il 10 alle parallele di Nadia Comaneci: semplicemente, non si può volere di più.
Un antipasto che potrebbe tranquillamente essere un pasto completo per pranzo, considerata anche la scarpetta finale con il pane che è cosa imprescindibile (tra l’altro anche il pane non è male).
Quando ho la fame vera, poi, il primo mi è amico del cuore e non ci so rinunciare: opto per una mezza porzione di gnocchi di patate fatti in casa con ragù di capriolo (“capriolo italiano” puntualizza lo chef Diego Rossi che mi danza davanti senza far uscire dalla cucina un piatto senza averlo ispezionato).
Gli gnocchi hanno una consistenza soffice, e il ragù (che poi scopro essere mantecato) è denso e cremoso, saporito, decisamente buono e persino delicato. Anche in questo caso la mezza porzione è piuttosto generosa, inizio a capire perché la gente si innamora di questo posto.
Nel frattempo un cliente tripparolo sui 70 mi attacca bottone: il bancone, si sa, è luogo di incontro.
Il signore conosce un sacco di cose, si autodefinisce “gastrofighetto preparato” e mi imbastisce un discorso che parte dal baccalà e finisce con le origini sardo-liguri e i 5 fratelli “tutti chef”.
Nel frattempo arriva il mio secondo: merluzzo su crema di fagioli cannellini con cavolo nero saltato.
Le consistenze, le consistenze sono importanti. La crema di cannellini pare velluto, il cavolo nero è in quel gradino appena sotto lo scricchiolo dei denti, il merluzzo è morbidissimo e cotto alla perfezione. E, aridaje, la porzioncina non è stitica, neanche stavolta.
Riappare il signore gastrofighetto, mi riabborda e attacca con le mirabolanti avventure degli stoccafissi, finendo per tessere le lodi di Trippa. Per farla breve: non era una comparsa a pagamento, vi assicuro, ma uno splendido signore che mi porterà fuori a cena a breve.
Nel frattempo, comunque, intorno a me succedono cose, arriva gente che si saluta, saluto anch’io, parlo con qualcuno, un pochino mi sento a casa anche se sono a cena da sola.
Anche il personale è assai gentile: questa è la cena in solitaria meno solitaria che io ricordi.
Il dolce non mi ci sarebbe stato nemmeno sotto tortura, ma arriva un fuori programma a cui non è possibile dire di no: il midollo arrosto. Difficile descriverlo: semplicemente primordiale, incredibilmente goloso.
Chi l’ha definita tempio dell’hipster mangereccio, sbaglia.
Trippa ha (è) una cucina maschia, testosteronica che sa picchiare duro e anche regalare un fiore: come quel bel tenebroso che piaceva a tutte ai tempi del liceo e che poi scoprivi essere anche dall’animo gentile.
Insomma, tutto ma di certo non costruita come i baffi da sparviero degli hipster milanesi in estinzione.
Conto: con un bicchiere di vino (ce ne sono parecchi al calice) e un caffè sono arrivata a 44 euro.
Leggermente al di sopra di una trattoria dura e pura, ma li vale tutti, soprattutto se penso alle finte trattorie in cui si rischia sempre di incappare e dove il rischio salasso è anche peggiore.
Ora il mistero del “Trippa di qui, Trippa di là” è svelato: mangiare da Trippa è godereccio e anche divertente, visto l’ambiente famigliare e “soleggiato” anche a gennaio.