Quando un tuo amico vuole sperimentare per la prima volta un ristorante stellato e si affida a te, il compito è arduo. Sai bene che, da neofita, gli esploderebbero di gioia le coronarie se potesse sbizzarrirsi nel suo ruolo di recensore seriale di TripAdvisor, sputando sentenze su un Cracco o, meglio ancora, un Cannavacciuolo.
Ma non voglio fomentare le manie superomistiche del suddetto amico, anzi vorrei davvero che facesse un’esperienza da ricordare.
Anche perché, meno di una settimana fa, si professava assolutamente reticente a spendere “così tanto” per una cena. E, da quel momento, il mio compito nel mondo è stato far sì che si ricredesse. Lui, riprovevole miscredente.
Opto quindi per uno stellato che da tempo volevo provare anch’io. Diciamolo: per accompagnare qualcuno nella sua prima cena blasonata, scegliere Tokuyoshi a Milano ha i suoi vantaggi.
Innanzitutto l’ambiente, non formale all’eccesso, con qualche tavolo satellite e un grande social table che permette vicinanze e condivisioni che, di solito, il ristorante ingessato non contempla.
Tutto rigorosamente senza tovaglia, scatenando le ire dei recensori vecchia scuola, e con lo spettacolo ipnotico di una parte della brigata che lavora posseduta da nistagmo oculare, come in trance.
Poi c’è lui: Yoji Tokuyoshi. Probabilmente la prima volta che mangiai da Massimo Bottura all’Osteria Francescana c’era anche il suo zampino.
Quello, cioè, di un giapponese ormai più emiliano con gli occhialini alla John Lennon che è stato accanto al Massimo nazionale per tanti anni, prima di prendere baracche e burattini e trasferirsi a Milano per aprire il suo ristorante, guadagnandosi il meritato posto al sole.
S’intenda: col proprio nome stampato bene in vista sull’insegna. E comunque, nonostante questo, il mio amico si ostina dall’altra sera a chiamarlo TokuyAshi: lui sostiene che con la “a” faccia più giapponese.
E poi c’è il menu: ci sono tre diverse opzioni a degustazione, e quello che più scatena le mie curiosità è “Italia incontra il Giappone”, badate bene al titolo perché, lo sapete, le parole sono importanti (e anche la loro posizione).
Non vale scambiare i ruoli: qui il soggetto resta l’Italia, i suoi sapori, molti dei suoi prodotti, le sue ricette. Tutto il percorso gastronomico parla italiano, picchiando duro sui classici senza tempo (il cannolo, il risotto, la coppa di testa tanto per citarne qualcuno).
Il Giappone c’è, ma come si conviene a una cultura gastronomica più silenziosa e composta di quella di casa nostra, è una presenza discreta, mai invadente.
Nel complesso le sfumature orientali stanno nell’accompagnamento di tutti i piatti con una parte liquida (a volte calda, ma anche fredda), nella purezza dei sapori, oltre a qualche citazione più diretta e ammiccante, come nel caso dell’amuse bouche che ricorda nella forma un taco, ma che è composto con pane giapponese.
Gli amuse bouche, dicevamo.
Non semplici entratine trascurabili e preparatorie, come accade in molto casi dallo sbadiglio facile, ma piccole meraviglie come il fish&chips di fiume e radici, o il pane, burro e alici in versione rivista con olive (pane di lievito madre e impastato con acqua di mare, che ve lo dico a fare?), il tutto accompagnato da un brodo di scarti di verdure.
Non arricciate il naso ed evitate di immaginarvi una brodaglia annacquata con bucce di patate galleggianti: si tratta di una sorta di essenza di verdura, saporita, densa, avvolgente e sapida. Parecchio sapida. Una di quelle cose che si potrebbero bere all’infinito.
Nel frattempo, tra la schiera incalcolabile dei ragazzi della brigata, arriva anche lui, lo chef. Assiste all’impiattamento, serio serissimo, concentrato. Per tutta la sera non farà che scomparire in cucina e fare capolino ogni tanto, segno che dietro quegli occhialini lui deve avere tutto (e tutti) sotto controllo.
Il Cannolo Siciliano ripieno di baccalà mantecato, per chi ama davvero la storica ricetta veneta, è un po’ sottotono: pastoso, ma leggermente asciutto, ricoperto da una pasta molto croccante (e molto ben fritta), accompagnato da brodo di lenticchie.
Ma di lenticchie per davvero, come ne fosse una “spremuta”.
Siamo arrivati fino a qui e, in un tripudio di assaggi (dovuto anche al tentativo di sdrammatizzare gli effetti dell’aperitivo reiterato da cui siamo reduci, ma anche dell’etichetta per la cena decisamente azzeccata – un Bourgogne di Henry Boillot del 2013) non ci siamo nemmeno resi conto che non abbiamo ancora usato le posate.
Il mio tovagliolo è già un campo di battaglia, ma mangiare e rimangiare con le mani in un ristorante stellato è un buon metodo per stemperare la tensione anche per l’amico al suo primo giro.
E’ la volta dello sgombro Gyotaku, l’ammiraglia di casa, il piatto forse più mediatico e rappresentativo di Tokuyoshi.
Il colpo d’occhio è notevole, tra presentazione e bellissima ceramica, ma qui tutti i piatti sono davvero bellissimi.
Rigore e pulizia, arte e minimalismo, soprattutto nella testa dello sgombro riprodotta in Gyotaku, tecnica usata dai pescatori giapponesi: insomma mood giapponese, costellato di piccoli particolari mediterranei come il limone e il finocchietto nel ripieno insieme alla mousse di capesante.
Il sapore è molto delicato, la panatura corvina riequilibra con un po’ di croccantezza l’elasticità del pesce. Il latte di pinoli in accompagnamento mi rimane entità sconosciuta e incomprensibile.
L’anguilla laccata all’aceto balsamico in polvere di verdure, dopo cotanta sobrietà, è una botta di colore e sapore che risveglia le papille sonnolente.
E’ strong, decisamente strong: un mix di bombe che scoppiano sul palato e che dovrete bilanciare da soli, usando con diligenza e parsimonia le polverine vegetali nel piatto.
Il brodo “Via Emilia”, per continuare con le bordate papillari sfacciate, è fatto con cappone, crosta di Parmigiano Reggiano, prosciutto e mortadella. Qui la nonna modenese col grembiule e i gambaletti sbaraglia la concorrenza timida della pacatezza nipponica.
Yoji, sì, tu mi piaci.
Risotto con Ostriche di Belon & Wagyu di Tottori: e qui ti volevo.
Due assi nella manica giocati nello stesso piatto, quello da cui ci si aspettano fuochi d’artificio, anche solo pensando alla materia prima che, per una volta, non è la “roba povera che va di moda adesso”, ma lusso vero.
Il fatto è che poi, in mezzo a piatti che si distinguono per sapori ben riconoscibili e idee chiare, qui su tutto vince l’ostrica che, con un colpo basso, dribbla il povero wagyu, relegato in seconda linea con il compito di lasciare solo un po’ di grassa morbidezza al risotto mantecato in sottrazione di burro.
Recuperiamo al volo la delusione con il maialino da latte nascosto nella foresta, servito con succo di ciliegie e rabarbaro e accompagnato da coppa di testa su gnocco fritto.
Mi giro, il tempo di annusare l’aria di bosco che il cameriere si è premurato di spruzzare intorno a noi per regalarci l’illusione di una passeggiata tra le frasche: il mio compagno di banco ha già finito il suo gnocco fritto, tempo stimato di masticazione meno di 3 secondi.
Qualcosa mi fa pensare che abbia apprezzato. Anche in questo caso si mangia tutto con le mani, compreso il taco verde-su-verde ripieno del maialino (delizioso) che dà il colpo di grazia al mio tovagliolo martoriato.
Arriva il piccione. Il fieno ancora profuma di erba e fumo, il piatto è di una bellezza rara, e il tutto è servito con brodo di mais tostato, insieme a una chips croccante di cacao e fegatini di piccione.
Anche in questo caso, il tempo di ammirare e fotografare il piatto e il fegatino di piccione se ne è volato via, questa volta forse i secondi netti sono stati solo 2.
Cottura del petto, ottima; sapori netti e decisi, insomma molto buono, ma io e il piccione in effetti difficilmente non andiamo d’accordo.
Il brodino ricorda un po’ quello che in vita il piccione deve avere mangiato, ma anche i pop corn fatti in pentola.
Il dessert, in puro stile contemporaneo, ha molto poco del dolce, anzi somiglia quasi di più ad un ibrido “da brunch”, che ricorda il dessert ma poi lascia sensazioni (anche) sapide al palato.
La meringa al carbone vegetale ricorda il cemento (no, non in bocca, non temete), la granella è composta di briciole di biscotti al cioccolato e sale, con una crema al mascarpone, erbe e gelato al topinambur.
Non mi emozionano mai molto i dolci, è una vecchia questione aperta per me, ma questo è buono. Complesso, eppure con sapori puri.
Spesa tonda tonda, 300 euro in due.
“Quindi, piaciuto?” chiedo appena usciti dal ristorante all’amico ormai iniziato all’alta cucina. “TokuyAshi? Sì, molto”.
Chiamatelo come vi pare, ma andateci, ne vale la pena. E poi la prima volta non si scorda mai.