Tavolo di tre donne in uno dei ristoranti più chiacchierati di Milano. E’ sabato sera, abbiamo prenotato con anticipo visto che dello Spice Bistrò se ne parla un po’ ovunque e, si sa, siamo tutti un po’ pecorelle vittime e carnefici del passaparola.
Del locale ho letto molto, e molto spesso i toni erano entusiastici e mirabolanti.
In realtà pare che la prenotazione non fosse proprio necessaria, visto che il locale è pieno solo a metà.
Quello che non hanno detto, e da cui mi sento di mettervi in guardia, è che è un locale piuttosto buio, divanetti neri e trabocchetti a specchio in cui potreste anche sbattere il naso per illusione ottica.
Abbiamo sentito di piatti coraggiosi e abbinamenti arditi congegnati da Misha Sukyas, cuoco giramondo di origini armene dalla biografia turbolenta e i molti tatuaggi, già protagonista dell’Alchimista in zona Arco della Pace sempre a Milano, oltre che di alcuni episodi italiani di Hell’s Kitchen.
Il menu, in effetti, non tradisce. Scritto rigorosamente a mano, dopo breve lettura siamo cariche di input, fame, aspettative. Ma, ovviamente, non sappiamo bene dove sbattere la testa.
Difficile scegliere qualcosa quando tutto, sulla carta, sembra interessante. C’è l’insalata di tuberi, il maialino alla Coca Cola e purè affumicato, gli spaghetti con ragout di gallina, sukiyaki “Django della pastina”.
Un’impresa titanica per tre affamate.
Ci viene in aiuto il barbuto ragazzo in sala, uno di quelli che, alle prese col tavolo accanto, pronuncia le parole inglesi con aria sicura e strascico ammericano.
E qui accade il dramma: chiediamo qualche informazione sui piatti e d’emblée parte una lunga e un po’ agonizzante spiegazione di tutti (sì, tutti) i piatti in menu. Sono la bellezza di 15, li ho contati.
Silenziose e composte ci sorbiamo il pippone, a tratti non richiesto, ma alla fine utile a capire un po’ meglio da che parte andare. Utilissimo, ad esempio, perché da subito ti dicono che le porzioni sono piccine, sono da tapas rinforzata, non certo da fondina piena fino all’orlo. Che poi tanto le fondine non le usa più nessuno, ma questa è un’altra storia.
Volendo, si può accompagnare il cibo con un cocktail, ma visti i piatti già abbastanza carichi, optiamo per una bottiglia di vino. Provinciali, noi.
Abbiamo ascoltato il cameriere, che nel frattempo sono diventati due, uno in particolare in modalità amichevole. Pure troppo. Non mi aspetto un servizio ingessato e istituzionale, ma il sorriso un po’ affettato e l’ostentata simpatia sono un pochino forzate.
Dicevamo: il consiglio della casa è scegliere qualche piatto da condividere all’inizio, e poi magari concentrarsi su quello che più ti ha ispirato della lunga, dettagliata e ricca di immaginifici spunti spiegazione di cui sopra.
E sia. Frittura di creste di gallo e salsa verde tropicale, tonno rosso marinato, cioccolato bianco, wasabi e corallo al limone (è il piatto più caro del menu, 18 euro), e poi baccalà mantecato.
Osiamo, sì, ma vogliamo provare anche qualcosa di più comfort e tradizionale. Le creste di gallo (senza bargigli o altre rigaglie), superato l’iniziale sospetto con cui si guarda a parti non certo nobili, sono deliziose.
La frittura è perfetta, leggermente croccante con l’anima più morbida, ma da masticare.
Il baccalà mantecato, principe indiscusso dei cibi confortevoli, è carico di sapore, con la giusta consistenza e accompagnato da pane fritto nel burro.
Questo il cameriere non ce l’aveva detto, ma è difficile non capirlo da soli, vista l’immane quantità di burro che il pane ha trattenuto. Se ne potrebbe mangiare per ore.
Astenersi se a dieta.
E’ l’ora del tonno rosso marinato, cioccolato bianco, wasabi e corallo al limone: intrigante, certo. Coraggioso anche.
Il tonno si scioglie letteralmente in bocca, con quella nota leggera del cioccolato bianco (non vi agitate, nel piatto ce n’è giusto un pochino), quel corallo acido e croccante che, non chiedetemi come, lo chef ha ricavato dal riso.
Molto buono, insomma: i tre bocconi di numero, in questo caso, sono proprio una porzioncina da principianti.
Dopo aver condiviso i primi tre piatti ora ognuno per la sua strada. Chi opta per la zuppa di cipolle dopo il primo assaggio dichiara: “ho vinto io, questo è il piatto della serata”. In effetti è notevole, densa, cremosa, molto saporita, molto burrosa, molto tutto.
Forse troppo visto che a metà del piatto la stessa persona dichiara “forse è un po’ forte”, e verso la fine si dichiara quasi sconfitta.
Se poi il giorno dopo l’amica in questione manda messaggi facendo riferimento alla felpatura della lingua dopo una nottata, le cose sono due: o era la zuppa di cipolle della vita, con una persistenza da guinness dei primati, oppure era un po’ troppo carica di sapori.
Va bene stupire e prenderti a virtuali schiaffi papillari ma qui forse allo chef è scappata un po’ la mano.
Per me, invece, non ci sono storie. Anzi, ce n’è una sola: quella che mi ha raccontato il cameriere spiegandomi che lo chef vuole liberare la pastina dalla tirannia degli ospizi.
Scelgo i risoni risottati al limone fumè, e giuro che non avrei mai pensato di mangiare la pastina fuori dalle mura di casa di mia nonna.
Ma, a differenza della nonna, in questo caso i risoni hanno ancora una consistenza assai masticabile, e in bocca è una specie di tripudio di salivazione da limone (che potrebbe sembrare una cosa brutta, ma invece proprio no.)
Menzione anche per il gallo confit, bernese e patate saltate. Sì, il gallo è tenero e cotto ad hoc, ma le patate. Le patate, signori! Piccoli bocconcini di amido letteralmente stretto nel dolce abbraccio del burro. Mamma mia, quanto burro.
Se non fosse che appena fuori ci sono le colonne di San Lorenzo, direi che pare di stare in Francia.
L’amica della zuppa di cipolle decide di mollare il colpo. E’ provata e non ne vuol sentir parlare di dessert. Ma poi nominano il tiramisù e la cosa non può lasciare indifferenti.
“E’ fatto al momento”, “fava di tonka”, “solo un assaggino”: siamo già convinte. E, in effetti, ne valeva la pena.
Una rivisitazione che non stravolge ma valorizza un godimento pieno e rotondo: dicesi un tiramisù con le palle.
L’amica al tavolo esperta pluriventennale di dolci annuisce. Se lo dice lei, che è un po’ come l’uomo del monte, andate sul sicuro.
Temo fortemente il momento topico del conto, invece tutta questa esplosione di burro e sapore ci costa 35 euro a testa, direi più che onesto viste le salassate che spesso riserva la metropoli mangiando pure molto peggio.
Ricapitolando: sapori coraggiosi, a tratti talmente decisi che sembrano fatti per scatenare la discussione a tavola. C’è chi si sente “schiaffeggiato” e chi gradisce gli stimoli forti. Di certo, non dovrebbe lasciarvi indifferenti, questo sembra decisamente impossibile.
Nota dolente di Spice, oltre a qualche angolo del locale che somiglia a un night club, è il pane: assolutamente trascurabile, senza nulla da raccontare. Strano, soprattutto in periodi come questo dove tutti gli chef hanno il grissino della casa o il lievito madre di 280 anni.
Tuttavia ci ritornerei per diverse ragioni, e una si chiama burro.