Finalmente ci siamo. Felice al Testaccio in versione milanese apre i battenti martedì 14 novembre a Via del Torchio, tra squarci di eleganza architettonica meneghina, sussulti di movida ed echi di mondanità esibita con garbo.
Nell’ormai breve attesa, per fare aumentare adeguatamente la vostra salivazione (e la mia pressione arteriosa), ho pensato bene di mangiarmi più di mezzo menù, che è il medesimo di Roma, al netto di qualche minima differenza, e agli stessi prezzi della storica trattoria di Testaccio.
Il tonnarello di Felice a Testaccio, per cui i milanesi andavano a Roma, arriva a Milano.
Perché mi sono già mangiato tutto lo scibile umano, in una serie di cene diversamente dietetiche, mettendo a repentaglio il lavoro del mio gastroenterologo?
Risposta semplice, ma necessaria: ho curato la carta dei vini del ristorante, di conseguenza ho passato moltissimo tempo dentro le stupende mura dell’apertura milanese. Stupende sul serio, non è un aggettivo generosamente elargito, visto che parliamo di mura di circo romano del 200, tornate alla luce con un certosino lavoro architettonico.
Vista la premessa e il mio coinvolgimento questa vuole quindi essere un’anteprima, piuttosto che una recensione, anche perché di fronte a carbonara, cacio e pepe e coratella non ho mai avuto uno spiccato senso critico.
Il primo conflitto d’interesse della mia vita, insomma, si conclude in un bagno di agnello e guanciale, trippa e coda, carciofi e tiramisù al bicchiere. E qualche riflessione personale.
Quasi cinque mesi di intensi lavori e un risultato estetico che lascia il segno, perché se la cucina, già ampiamente rodata, ripropone pedissequamente le ricette capitoline, la cornice è da ristorante di medio/alto livello.
Dazio da pagare a Milano? Probabile.
Ma siamo lontani anni luce da un certo conformismo di design che domina in città. Vedere per credere, anche se l’illuminazione è perfetta per la cena, meno per il gesto fotografico, a cui dovete perdonare l’inadeguatezza tecnologica della mia dotazione.
Da par mio plaudo, non solo da romano mediamente nostalgico, l’idea di un locale che lanci qualche ulteriore segno di ritorno a una cucina di sostanza e generosità. Non sparate sul pianista, se dico che a furia di sottrarre, sofisticare, non cuocere, accostare arditamente e “impiattare” la nuova cucina stia diventando sempre più chirurgica e arida, a volte davvero stonata.
Le migliori trattorie di Roma? La discussione è ufficialmente aperta.
Dal calderone modernista escono ovviamente anche grandi creazioni, ma credo siano maturi i tempi, perfino a Milano, per un ritorno a una cucina regionale ricca, abbondante e di tradizione, che nell’ultimo decennio è stata sempre bollata come anacronistica.
Per Milano, Roma rimane un esotismo, un modo di vivere e di pensare le cose. “Mi piacciono i romani, trovo irresistibile il loro modo di parlare”, “simpatici i romani, hanno sempre la battuta pronta, e poi la carbonara è il piatto della mia vita” sono alcune delle sentenze che accolgo da un decennio abbondante di vita milanese.
Quel calore confusionario e disincantato, anche retorico, che forse si è perso negli ultimi anni, si riverbera nella cucina capitolina, che a Milano ha le sue mete di pellegrinaggio sempre molto frequentate: Volemose bene e Giulio Pane e Ojo su tutti.
Mancava però quell’autenticità che, al di là di gusti e considerazioni critiche, si respira nella cucina di Felice al Testaccio, quell’idea di aderenza alla tradizione data dalla storicità del locale, dai modi umani e gentili di Maurizio (nipote di Felice) e di sua figlia Giulia, che gestirà il ristorante di Milano.
Qui mangerete carbonara (12€), (a)matriciana (11€) e baccalà fritto (13€) a getto continuo, ma a me mancava soprattutto, e qui la distanza critica va a farsi benedire, l’abbacchio al forno (19€), la coda alla vaccinara (17€), le verdure ripassate (6€), i carciofi (7€) e le puntarelle (9€), i tanti piatti saporiti e poveri con cui sono cresciuto.
Per finire ovviamente su quella cacio e pepe cremosa e irripetibile (13€), complice il mitico tonnarello di Gatti Antonelli, che rifornisce la trattoria dagli anni ’50.