La Milano di metà anni 90, rampante come nelle pubblicità dell’amaro Ramazzotti.
La Milano che non ho vissuto ma percepivo con sdegno classista e che ora quasi rimpiango perché il mio sguardo è sommerso, quasi saturato da orde di hipster conformisticamente anticonformisti; da manager che dirigono aziende ma portano pantaloni stretti con l’orlo al polpaccio.
Oggi il reazionario sono io, ma quella Milano esiste ancora e ha i suoi punti di ritrovo.
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El Carnicero è uno di questi, una sfavillante casa della carne, elegante e opulenta, antica e contemporanea, con un servizio rapido e indolore, dalle maniere solide e un po’ impettite.
Qui si affondano le mascelle in carni di pregio mentre intorno splendide cinquantenni con gambe sinuose e caviglia fine si intrattengono con mariti meno in forma ma con lo sguardo navigato. Qui c’è spazio per tagli eruditi e aperture commerciali, posate pesanti e carte dei vini ampollose, grosse.
Internazionali come la vocazione di un menù che se ne frega della filiera corta e che ha la nomea di essere costoso. Senza esserlo in modo eccessivo.
Siamo in Via Spartaco, vicino Piazza Cinque Giornate (ma El Carnicero in tempi più recenti ha aperto anche in zona Garibaldi), in una zona più da happy tour che da tour de force carnivoro.
A proposito di happy hour, il Margarita d’ingresso fa davvero il suo: distende e ben predispone, senza lussi, rivisitazioni e tic da moderno mixologism. Qualcosa di meglio si potrebbe fare nella scelta delle birre, ma il milanese vecchia scuola vuole un rosso rotondo e masticabile come la carne, appunto. E qui trova tanto tannino per i suoi denti e poca ricerca.
Peccato perché i beveraggi rispondono a una politica prezzi sorprendente: cocktail a 6 euro, birra alla spina a 4, non male per un ristorante “rinomatamente” caro.
Tanti tagli, poche cose fuori dall’ordinario, ma anche qualche sfizio nella sezione sinistra del menù, dove mi intrattengo mentre immagino di passare ai piatti seri.
Si chiama reverse searing, è la cottura che rende insuperabile la bistecca.
Sono fisicamente incapace a non partire con le mollejas: animelle alla griglia. Un bel mix di croccantezza e grassezza, semplici, quasi didattiche. Vorrei uno Champagne per sgrassare, ne faccio a meno.
Bene, parliamo allora dell’hamburger, che in un posto del genere viene ovviamente oscurato, ma è di livello, con i succhi perfettamente assicurati da una cottura esemplare. Morbido, laido e intenso, con il patty di 250 grammi a governare il panino e a lasciare poco spazio ai condimenti (provola, cipolla e bacon).
Poi, il dramma: il Tomahawk su cui avevo puntato tutto non è disponibile.
Soffro in relativo silenzio, perché va bene assaporare la morbidezza e valutare la tecnica di cottura, però, per come la vedo io, in un grande ristorante di carne vado per mangiare un taglio o una razza che non reperisco con facilità.
Mi consigliano di affondare i denti stanchi nel Bifo de Chorizo, filetto basso di Angus argentino. Credo di non aver mai mangiato un filetto negli ultimi tre lustri (sono uomo da spalla d’agnello, capretto, interiora, pulled pork, o bistecca grassa, perdonatemi) e credo sia il momento giusto.
Partenza leggiadra, morso gustoso, poi più impegnativo. Cottura corretta, goduria a intermittenza.
Mi interrogo sul perché non mi sono buttato sulla Chuleta de buy madurado. Forse non avevo voglia che mi spiegassero come si massaggia l’animale, ma sicuramente non l’avrebbero fatto. Sarà per la prossima volta.
Game, set and match.