Entrando nella sala di Contraste, il nuovo ristorante di Matias Perdomo a Milano (già stella Michelin al Pont de Ferr sui navigli), si capisce subito che qualcosa non torna.
Sulla testa ti penzolano lampadari rossi giganti e moderni in completo contrasto con i soffitti affrescati.
Sul tavolo, invece, c’è una nuvoletta di bambagia illuminata d’azzurrognolo. Insomma, a colpo d’occhio si assiste al primo giochetto dello chef uruguaiano.
L’inversione dei poli tra paradiso e inferno è compiuta, e tutto è capovolto sottosopra.
Vuole stupire, il ragazzo, è ovvio, e almeno nell’arredamento lo fa con tocchi stranianti e onirici alla Dalì.
Il cerchio si chiude quando arriva il menu e nella prima pagina c’è solo uno specchio dove ti rifletti affamato. E quindi?
Questo percorso di 10 portate viene cucito su misura, in base alle tue indicazioni.
Butto un occhio anche al menu degustazione e alla carta: ma già che ci siamo perché non fare il vero salto nel buio e lasciare scegliere a Perdomo di cosa nutrirmi stasera?
Essù, spendiamole queste 130 euro: mi metto nelle sue mani, di fame certo con 10 portate non morirò.
Chiedono le mie preferenze: difficile per una che non ha allergie alimentari, non si schifa per le frattaglie, non è vegetariana e soprattutto a cui piace praticamente tutto.
“Mi piace la pasta, ma anche la carne. Ah, e il pesce anche”.
Non potevo fare di più, mai stata brava a scegliere. Sto al gioco e inizio a chiedermi cosa mi toccherà per cena, intanto continuo a fissare la nuvoletta.
Non è che proprio sia bella, ma un bambino ci perderebbe la testa.
La nuvoletta, dunque: classica cosa che ami o odi. Io, a questo punto non ho ancora deciso da che parte stare.
La fisso, ipnotizzata come davanti agli specchi che si squagliano di quel dipinto, ma no: non può essere solo un centrotavola puffoso. E infatti ha la sua funzione.
L’entrée non è da braccino corto: 6 bocconcini, in parte fluttuanti sulla suddetta nuvola, servono a scompigliare le carte. Non c’è un ordine, potete improvvisare e assaggiare qui e là come fareste in un brunch.
1. Bon bon di fegatelli di piccione, crue di cacao tostato con base di salsa all’arancia e crumble di noci
2. Sarda in saor gelatificata alla menta (qui è amore)
3. Creme brûlé di fichi e foie gras con spolverata di curry
4. Chips di amaranto con salsa guacamole e mais (anche qui mi sono innamorata per un secondo)
5. Chips di tapioca con anguilla affumicata e limone
6. Sushi di carne: controfiletto di manzo con chips di riso, alga nori, salsa di soia e una goccia di salsa bernese.
Come a dire arcobaleni, unicorni e giochetti lisergici sul palato. Già mi sto divertendo.
Rispettata la quota nipponica, che pare essere una legge non scritta ma sacrosanta. I noodles non sono di pasta, ma di capasanta (fresca e frullata, a cui poi viene data la forma di spaghetto), serviti con alga enoki, pinoli, tofu, kombu, sesamo nero e innaffiato con dashi della casa.
Inizio leggermente sottotono rispetto all’entrée che decisamente spacca.
Poi arriva lo sgombro marinato al miso, capperi, canditi di arance e limone, gelato di edamame ed emulsione di latte di mandorla.
Caldo e freddissimo, salato e dolce: non male.
Vi ricordate l’anguilla che risaliva il Po di Bottura? Sull’onda dei piatti “di concetto” qui abbiamo il gabilo sulla strada del sale.
Mi spiegano che una volta la strada del sale univa il mare al Piemonte, il che svelerebbe l’annosa questione del perchè la bagna cauda sia una ricetta tipica del Piemonte (che ha tutto, ma non certo il mare).
C’è il daikon in aceto di lamponi e un germoglio di cetriolo.
La base, per l’appunto, è una riduzione di bagna cauda che è una cosa buonissima.
Per Matias Perdomo che vive da così tanto a Milano, non poteva che esserci un omaggio al maestro Gualtiero Marchesi, il raviolo risotto (che si è portato in dote dall’epoca de Al Pont de Ferr).
La pasta è insipidina, ma il “ripieno” compensa decisamente in sapidità: dentro c’è risotto filtrato, che per i comuni mortali potrebbe significare aria fritta. In realtà è un liquido piuttosto denso che è un’essenza di risotto alla milanese. Il tutto condito da una mantecata di midollo e da accenni di gremolada.
Evvabè, cosa gli vuoi dire? Buonissimo.
Prosegue la saga degli scherzetti da ragazzino discolo, sul filone “non è quello che sembra”.
Ciò che alla vista mi sembrerà un donut (e in effetti il piatto si chiama donut alla bolognese), in realtà è una lasagna rimaneggiata senza snaturare la sua anima da comfort food. La pasta è dolciastra, dentro c’è il ragù e intorno besciamella e ristretto di carne.
Sì, qui si torna bambini e io mi sono fatta la scarpetta senza remore.
Parlavamo dei piatti spiegati: la casoeula. Parecchio prima del ristorante, in questa casa c’era un anziano signore che faceva un sacco di beneficenza, un brav’uomo insomma. Per rendere omaggio anche a lui, guarda tu Perdomo cosa s’inventa!
Gli euro sono gelatina di maiale, e alla sola vista del brodo filtrato di casoeula si sciolgono nel piatto.
L’avete capita, no? Un piatto che c’è sempre, anche quando di soldi non ce ne sono. A parte il blabla, pare abbiano isolato il cuore della ricetta e ne abbiamo rubato il cuore per mettervelo in bocca.
Arriva il rognone di coniglio con salsa all’anguilla affumicata, cicorino amaro al pistacchio e granita di zucchine alla scapece.
Amaro, affumicato, sapido e pure dolce: questo faccio molta fatica a descriverlo.
Consiglio assaggio, che facciamo prima.
Agguanto un pezzo di pane.
Il fatto è che sono a buon punto col menu e ancora non ho visto un coltello: finora la grande protagonista è stata la paletta, tra brodini, cose morbide e per nulla scrocchiarelle.
Masticare “cattivo” un po’ mi manca.
Si mastica poco anche stavolta, ma si gode assai: animella di vitello cacio e pepe (con crema di cacio e aria di pepe).
E non pensiate che si vada per il sottile: per fortuna quella di pepe era aria. Molto buono.
Pluma di maiale iberico con ricci di mare e burrata: lo chef lo fa da sette anni, e che nessuno osi toglierlo dalla linea, altrimenti perderebbe fan.
E si capisce il perché: uno schiaffo morale ai piattuncoli senza anima di altri cheffoni che questo sapore se lo sognano.
Petto di piccione, glassata alle nocciole ed erbette secche.
Ecco, qui confesso di essere rimasta un po’ perplessa: botta iniziale di nocciole, e poi finale selvatico di piccione che sì, è buono, ma non sembra il protagonista del piatto visto che le nocciole “gliele suonano” per benino.
Ultima citazione, poi tutti a casa che si è fatto tardi: Pulp Fiction vi dice qualcosa?
Ho chiesto un dessert non troppo dolce, visto che non è nelle mie corde. Mi arriva questo dolce splatter, divertente, un po’ tamarro come Tarantino insegna: i proiettili sono di cioccolato, la salsa di barbabietola, le “nuvolette” di cocco.
Ah, le nuvolette. No, ho deciso che non mi piacciono. Però mi divertono: continuo a essere indecisa.
Nel frattempo, visto che questa cucina riesce a fare sorridere anche i clienti più ingessati, qualcuno al tavolo accanto è alle prese con un dolce “da muratore”.
Cosa mi è mancato: masticare un po’. Forse il menu “studiato” per me era, almeno nelle consistenze, un po’ da dentiera traballante.
Perché sì: perché è un gioco che dura 10 portate (qualcuna meno riuscita di altre, ma nel complesso di livello) tra ricordi d’infanzia, fanciullezze da piatto, citazioni e surrealismo. Perché nei sapori non ci si risparmia, senza ricercare eleganze affettate.
Cosa non perdere: L’animella cacio e pepe, il “succo di carne” della ciambellina di lasagna, alcune delle entrée, il rognone di coniglio.