Anno nuovo, ricordi vecchi. Nemmeno tanto vecchi: a metà dicembre mi sono concesso un pranzo pantagruelico da Bon Wei dal risultato ragguardevole. Rilievo non indifferente nella capitale italiana della cucina etnica.
Lontano, più concettualmente che geograficamente, dal caos ristorativo e umano di Chinatown (la cui mutazione progressiva è comunqne netta e febbrile), Bon Wei è tra i più riusciti esperimenti di grande cucina cinese in Italia, approdo felice senza che l’esclusività appaia così unica da farlo pensare come la classica eccezione che conferma la regola.
[Bon Wei Milano: recensione del ristorante cinese]
Moderno, ma non modernista, elegante ma non leccato, ricercato quanto capace di autenticità, l’esperienza gastronomica e di ospitalità vive su un mirabile equilibrio tra una serie di spinte contrapposte.
Molto ben rappresentate dal menù degustazione: un viaggio geografico mai banale. E dal lavoro architettonico di Carlo Samarati, ispirato alla Cina contemporanea, che è appunto la terra delle contraddizioni e dei contrasti.
Provo a sintetizzare schematicamente le ragioni del mio entusiasmo.
1) Il menù regionale
Lo stereotipo del ristorante cinese unto, supereconomico e dozzinale è molto più saldo di quanto il gourmet medio ami pensare. Gran parte della responsabilità va fatta cadere proprio sui tanti ristoratori dediti a formule insostenibili, dall’All You Can Eat ai menù a base di riso alla cantonese, ravioli irricevibili e altri severi sadismi culinari.
Bon Wei non è il primo né l’ultimo ristorante che rompe questa consuetudine, riconciliando l’avventore con una cucina di una vastità inesauribile, ma a questo obiettivo aggiunge un impeto didattico dall’ampio respiro: lo studio delle tradizioni regionali della cucina cinese. Niente di rivoluzionario, ma provate a immaginare un ristorante italiano all’estero che presenti un menù diviso in aree geografiche e ditemi se non vi tremerebbero le gambe al pensiero di provarlo.
Da queste parti, invece, si mangiano alcune delle specialità più importanti delle varie cucine cinesi con un’uniformità e una continuità di assaggio esemplari. Si passa in modo indolore dalla delicatezza dei piatti di pesce dello Zhejiang (terra natia dei proprietari), alle piccantezze dell’ovest, dai sapori forti del nord ai grandi piatti del Guangdong, a una serie di ibridazioni sottili.
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Il menù degustazione è un’ottima sintesi di questo percorso, ma la cosa più consigliabile sarebbe andarci almeno in sei, dividere le pietanze e provare a seguire più percorsi parallelamente, magari provando quasi tutti i piatti.
2) Efficenza del servizio senza eccessi
Sono una persona semplice e concreta, non vado matto per i formalismi più sfiancanti: non amo i camerieri portati a ossessionarmi con la loro presenza, non desidero che i piatti mi vengano enunciati fino al loro raffreddamento o che mi vengano serviti in un contesto di asettico rigore chirurgico/cartesiano.
Il servizio di Bon Wei è presente, ma non invadente, accademico nella media di un importante ristorante asiatico – dove l’improvvisazione nel rapporto con il cliente non è esattamente ben vista – e spicca per rara efficacia. Tutto gira come una macchina perfettamente rodata, ma a sbalordire sono i tempi.
Chiedere a un ristorante di mangiare un ampio menù degustazione in meno di due ore (causa impegni personali improrogabili) e finire 10 minuti prima del previsto è un bel calcio in culo al dilettantismo. Non so dirlo in modo più elegante, perdonatemi.
3) Qualità degli ingredienti
Milano è la città della grande materia prima (soprattutto per quanto riguarda il pesce) dicono alcuni, ma anche la città con la cucina più spersonalizzante, dicono altri, magari affascinati dal romanticismo della ristorazione a km 0 o dall’idea del cuoco che si reca al mercato/macello/porto all’alba.
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L’idea generale è che se hai le idee chiare e puoi permetterti l’investimento giusto non hai grande difficoltà ad allestire una cucina di alto profilo. Sacrosanto, ma il dominio di alcuni fornitori è chiaro che livelli generalmente la proposta cittadina.
Anche sotto questo profilo da Bon Wei si respira un’aria diversa e mi è capitato di affondare i denti in sapori nuovi e accostamenti eleganti, azzeccati e calibrati, dove emerge il lavoro di selezione degli ingredienti e la mano felice dello chef Zhang Guoquing, fresco sessantenne.
A corollario di tutto c’è ovviamente la sua tecnica, ovvero la pietra angolare di una cucina che non si arrende mai alla qualità intrinseca degli elementi, che li sublima e non li subisce. Ma soprattutto che li accosta sempre con ispirazione, puntando alla distinzione piuttosto che alla sovrapposizione o alla saturazione.
O se in qualche modo eccede, lo fa per raggiungere un climax gastronomico. Come nel caso di alcuni piatti. Su uno di questi torno in conclusione.
4) La cortesia di Le Zhang
Non esiste buona cucina e buon servizio senza un padrone di casa competente e con le doti sociali giuste. Zhang Lee è uno dei segreti del successo del ristorante: un giovane cinese nato in Italia che padroneggia la tradizione, ma ha la laicità giusta – anagrafica e culturale – per non considerarla un fardello statico.
La chiarezza e il trasporto con cui spiega i piatti non hanno nulla di affettato, lo ascolti con interesse e non hai mai la sensazione che possa chiederti di usare gli hashtag giusti nell’eventuale foto al piatto.
Da qualche tempo Zhang è anche socio del locale, oltre a essere un sommelier interessato a sdoganare l’idea che al ristorante cinese si pasteggi male con il vino. Poco conta che per l’enostrippato di turno (eccomi) la carta sia troppo sbilanciata verso i “grandi” vini italiani, piuttosto che verso i “migliori” vini italiani (entrambe le denotazioni richiedono comunque le virgolette).
Conta molto di più il suo saper pensare in grande.
5) Il piatto capace di imprimersi nella memoria
Da Bon Wei ho mangiato tantissime cose tutte su un livello medio importante, dal delicato brodo di gallina, alla leggiadra polpetta di gamberi e capesante, verdure molto peculiari, uno splendido tagliolino tirato a mano e dell’ottima carne. Poi ho provato il pollo del generale (Zuo Zongtang dello Hunan) ed è stato amore.
Non pensavo di innamorarmi di un piatto a base di pollo, ma l’esplosione degustativa è incredibile e audace. Un piatto grasso, molto sapido e rotondo, lontano dall’idea che la perfezione sia nell’equilibrio. Un morso laido, lunghissimo, chiaro manifesto del sesto gusto.