Mentre Facebook prende misure straordinarie contro le fake news sul Coronavirus, qualcosa non torna persino a Google. È sabato mattina, e in questo 1 febbraio 2020 che avrebbe dovuto segnare la mitica, festosa parata finale del Capodanno Cinese in via Paolo Sarpi, a una ricerca sovrappensiero sul tema “capodanno cinese 2020 Milano”, il motore di ricerca mi risponde “Capodanno cinese – chiuso definitivamente”, con il consueto tratto di evidenziatore digitale rosso.
In caso non lo sapeste, la festa “aliena” più vera di Milano, la più bella e la più sentita, è stata cancellata dalla comunità cinese locale in segno di vicinanza ai connazionali. Sia morale sia materiale: le mancate spese sono state donate per l’acquisto di mascherine e altre necessità in madre patria. Comprensibilissimo, oserei dire doveroso.
Mi torna meno che all’ora di pranzo di sabato, fino a pomeriggio inoltrato, via Paolo Sarpi sia semideserta. Le lanterne rosse che puntellano il lungo e diafano lembo di cielo tra i palazzi ottocenteschi, normalmente guardiane e animatrici della festa, sembrano osservare sconsolate i pochi presenti, che a tutto sono dediti meno che a celebrare alcunché. Una donna su una panchina, immersa in solitaria lettura. Qualche rider, qualche passante.
In barba a Google, oggi mangerò il cibo del Capodanno Cinese, o almeno quello che mi offrirà questa China Town milanese non festeggiante.
La via Paolo Sarpi più autentica, tra ristoranti, negozi e cibi
Non c’è nessuno in coda alla Ravioleria Sarpi, fatto inimmaginabile, più che strano o improbabile. Una signora italiana si lamenta di chi scatta foto (me compreso): “C’è il virus ma mangiano ancora, sa?”. Un nervosismo snervato, protettivo, verso una comunità che sente anche sua. E pensare che i ravioli, nella moltitudine di forme e sapori, sono tra i cibi più tipici del capodanno. Portano ricchezza, vuole la tradizione.
Forse per il fatto di essere numerosi, un po’ come le lenticchie per noi italiani. Immancabili nel menu delle feste di capodanno sono anche gli gnocchi di riso (Niángāo), in preparazioni sia dolci sia salate, nei modi più svariati possibili. Ne voglio un piatto, non sarà difficile essere accontentato in uno dei ristoranti semideserti, ai tempi del capodanno del coronavirus.
Da Yuebinlou una delle due sale è abbastanza affollata però, è uno dei pochi a godere di buona sorte oggi. Mentre festeggio il mio personalissimo capodanno con gnocchi con carne essiccata fatta in casa, la mia cameriera mi informa di ciò che anche non manca mai dalla tavola delle feste: il pesce, soprattutto carpa e pesce gatto. Le preparazioni tradizionali variano regionalmente, ma è sempre servito intero, a rinforzare l’opulenza e la prosperità di cui è simbolo. E poi gli spaghetti della longevità Chángshòu Miàn, che più lunghi sono e maggiore sarà lunga la vita.
Via Sarpi non è solo Cina autentica, tradizioni puriste e casalinghe. È il cuore della comunità cinese a Milano, e dalla cultura meneghina prende, oltre che dare. Ad esempio, da Bokok non va in scena il teatrino stereotipato della trattoria tipica: è uno spazio smart e di design. È un luogo di cibo e di lettura, un ristorante e una libreria. Non c’e quasi nessuno neanche qui.
Il menu è eclettico, tra pietanze rassicuranti e sperimentazioni che guardano avanti. Come in molti altri ristoranti in giro per la città, anche qui lo chef propone creazioni su misura per l’anno del topo: un bao (il caratteristico panino al vapore) con patate viola, colore di buon auspicio, e uno con spalla di maiale marinata con soia, miele e zenzero e coperto di polvere d’oro. Sia l’oro che il cibarsi di maiale sono simboli di ricchezza.
Le preparazioni più autentiche si fanno prevalentemente a casa, in famiglia, ed è inutile cercarle a casaccio girando per i ristoranti. Me lo spiegano i ragazzi che lavorano da Kathay, il più noto supermercato cinese/asiatico della zona. Speravo di trovare altre tipicità di capodanno, come la Zuppa Laba fatta con diversi tipi di riso, fagioli e frutta secca. O il dolce di sesamo Zhimatang, o il Pan di Fiore (huamo), piccoli panini al vapore a forma di fiori o animali. Me me vado comunque soddisfatto con la mia dignitossissima spesa delle feste, piccola e minimalista, ma curata e suggerita nei dettagli dai commessi, per l’occasione miei adorabili personal shoppers.
Ho gnocchi freschi da fare con funghi shitake e gamberi (un’altra preparazione molto consueta), ma soprattutto ho la frutta tipica di capodanno (il pomelo e il dragon fruit) e le palline di riso dolci Tāngyuán, simbolo di unione familiare. Si trovano in varie farciture, similmente ai mochi giapponesi. Al matcha, ai fagioli rossi, ma soprattutti quelli tradizionali al sesamo.
Mentre me ne vado, la capanna modernista della Feltrinelli ormai a un passo, mi cade l’occhio sulla amatissima bottega del “miglior tofu di Milano” (mi hanno sussurrato più volte i vicini di bancone). L’insegna dice “formaggio di soia”, sta lì da sempre, da quando agli italiani glie lo dovevi spiegare così il tofu. È quasi deserto anche qui, lo squallore intrinseco di questa bottega stile regime assume oggi connotati tristi più che folkloristici. Finisce così un pomeriggio di ordinario, colpevole non senso collettivo. Oggi Paolo Sarpi, inutilmente zombie, svuotata della sua magia ipnotica, non è nulla di più che una via, con qualche lanterna rossa che la osserva dall’alto impotente e sconsolata.