C’è stato un tempo in cui Mercato Centrale divideva Torino. C’erano gli ultras liberali per cui il tifo era dovuto e gli aficionados di Porta Palazzo, quella del mercato autentico, addirittura disturbati dalla mega-impresa di Umberto Montano: trasformare un Palafuksas disgraziatamente polveroso (e già nato bruttarello) in un polo gastronomico patinato capace di far cambiare strada ai turisti. Di fronte al mercato rionale più grande d’Europa, per l’appunto, che è già abbastanza divisivo di per sé.
“Finalmente si riqualifica“, si diceva, e quella frase soltanto provocava muscolari consensi e sopracciglia aggrottate. Chi a Porta Palazzo ci ha sempre comprato i formaggi di nicchia, chi ci passa stringendo la borsa al fianco, chi “non sono razzista, è che è proprio sporco”, chi nelle “botteghe artigiane” del nuovo Mercato Centrale, accanto alle bancarelle dei rigattieri, vedeva una forma di gentrificazione forzosa. E l’alienazione. Il gastrofighettissimo. I prezzi “troppo alti”. I negozi dei cinesi al secondo piano che “fanno sfigurare”. Zygmunt Bauman.
Poi è arrivato un tempo peggiore, quello dell’indifferenza. La stampa gastronomica ha smesso di pompare (sia messo agli atti: noi qualche critica la muovemmo, fin dall’inizio) e pure le botteghe in chiusura hanno smesso di far parlare di sé.
Che il Mercato Centrale sia un luogo poco frequentato è un dato di fatto che notizia non ha fatto mai. La mappa di ristoranti e negozi impressa sul muro è ferma a tre anni fa e palesa quanto la food hall sia stata stravolta dall’inaugurazione, ma manca pure la voglia di stilare elenchi di sostituzioni e fughe. Nondimeno, nessuno ha interesse nel puntare il dito su alcuno o alcunché.
C’è quella vecchia parabola sul Signor Ferrero che per testare le nuove merendine le piazza sugli scaffali di Torino, ché se funzionano lì andranno alla grande ovunque: crederci conta poco ma la morale l’avete capita. E poi le food hall, a Torino, non hanno mai funzionato granché. Per non parlare del Covid, suvvia.
Ad interrompere il sanissimo fatalismo che si respirava tra le “botteghe artigiane” ha pensato Umberto Montano stesso medesimo, attraverso un’intervista rilasciata a Luca Iaccarino su Il Corriere della Sera che mi pare più incredibile del signor Ferrero che torna in vita, costruisce una macchina del tempo, va nel 2006 e ci risparmia il Grand Soleil. L’imprenditore riesce in buona sostanza a dare la colpa a:
- L’ufficio stampa da lui stesso assunto. Testualmente: “non ho i milioni da buttare nel Mercato di Torino, non posso investire quello che non ho. Forse i soldi che spendo male sono quelli dell’ufficio stampa, che non mi sembra efficace sulla città”
- Gli “artigiani” che se ne sono andati. “Occelli, Marchetti, Del Cambio… ci hanno lasciato appena è finito il furore dell’apertura, tanto l’investimento l’avevamo fatto noi. Mercato Centrale ha dovuto fare uno sforzo enorme per colmare quei buchi. Un premio ci dovrebbero dare! E abbiamo trovato altri artigiani che non fanno rimpiangere quelli di prima: Scabin è Scabin, Chiodi Latini segue il ristorante vegetale molto più di quanto lo facesse Marcello Trentini, che al Mercato non metteva più piede”, dice. E si tacciono parecchi nomi, dal primo punto vendita “offline” dell’e-commerce di successo Cortilia, oggi sostituito (se posso permettermi, da uno spazio non altrettanto coinvolgente), al Trapizzino che non c’è più, fino alla bottega i Formaggi e i Salumi di Beppe Gioviale, che era uno splendido negozio di formaggi e al momento è francamente una vetrina casearia meno esaltante. E pure il mulino di Viva la farina! è oramai inutilizzato: è attivo a Milano, nel più animato Mercato Centrale che costeggia la stazione. C’è più cucina d’altrove, oggi; pochi spazi non hanno trovato un’alternativa, ma l’aria che si respira è davvero mesta e viene difficile, guardando i bottegai, prendersela con loro.
- Se stesso. Ma non pensiate sia un’autocritica, è più una supercazzola. Incalzato dal giornalista, che fa il paragone con Eataly e sottolinea come in pandemia lì si investa, si vivacizzi il più possibile, Montano alza le mani: mica sono Farinetti, taglia, “Io sono un parvenu“. Ma come. Il signor Mercato Centrale, quello del riuscitissimo polo fiorentino, quello che ci svolta il viaggio quando siamo a Roma Termini, lo stesso che ha appena inaugurato a Milano, in quella che era la più fatiscente area della Stazione Centrale, stappando dei complimenti persino da noi. Ma come parvenu.
Dal canto loro, gli artigiani che sono riuscita a contattare nelle scorse ore hanno mantenuto un certo aplomb. Matteo Baronetto, più di tutti, che “preferisce non replicare e conservare le parole per parlare di cose nuove e belle in un prossimo futuro”. Alberto Marchetti, gelatiere-imprenditore se ce n’è uno, rimanda alla mente quella volta che ha dovuto chiudere un punto vendita – insomma, si sbaglia anche quando si è bravi – e alza giusto un ditino: “non è la singola bottega a dover garantire il flusso a Mercato Centrale”. Si sottolinea, in generale, che le uscite degli artigiani dalla food hall non sono fughe, bensì contratti non rinnovati o collaborazioni regolarmente interrotte: “Sono andato quando la situazione si è resa insostenibile”, afferma Marcello Trentini, aka Magorabin, che a Mercato Centrale aveva un bistrot vegetariano oggi sostituito dal lavoro di Chiodi Latini, “credo di essere stato uno dei più grandi sostenitori dei mercato Centrale fin dall’inizio. Era un bel progetto, poteva essere molto di più. La sostenibilità delle imprese è determinata anche dalla disponibilità economica, e io non ne avevo abbastanza. Mancava il volume di lavoro: penso non sia colpa di Montano, su cui continuo a riversare affetto e ottimismo, ma ci siamo ritrovati in una situazione priva di precedenti. Non è vero che non ero mai presente, però, c’ero come ci sono stati gli altri: non mettiamoci a dare la colpa agli artigiani e ammettiamo che se c’è una sconfitta lo è per tutti”.