Siamo stati da Luciano – Cucina Italiana -, a Roma, il ristorante di Luciano Monosilio nel centro della Capitale, ecco la nostra recensione.
Quando, per scelta o per caso, ci si trova ad essere outsider rispetto a un mondo che appassiona, si diventa fan. Si apprendono notizie di cose e persone, fatti pubblici e personali di chi quel mondo lo agisce ogni giorno; per osmosi si assorbono miti, nozioni, locuzioni verbali che diventano formulari senza per questo subire l’obbligazione di agire in quel mondo, senza essere costretti a rispettarne rituali o cerimonia.
Chi vi scrive, per scelta e per caso, è da sempre ai margini del teatro foodie italiano; e se non necessariamente fan è di certo auscultatore costante e curioso del battito della ristorazione patinata.
Spendere per una cena stellata, nonostante l’indiscutibile appeal che esercitino su di me l’invenzione d’alta cucina e la sua esecuzione, raramente ha trovato spazio tra le mie priorità degli ultimi anni – con ostinata giovinezza ho rifuggito il circo dei convegni e dei riflettori. Eppure.
Eppure le amicizie viziose, un passato familiare che mi ha portato dalla Piazza Duomo di Alba a quella di Ragusa Ibla, passando per gamberi rossi, Marchesi e pescatori; gli studi di gastronomia, una ghiottoneria tanto palatale che cerebrale mi hanno sempre tenuto a stretto giro di boa rispetto a questo mondo al contempo tanto attraente e ostico: così hanno preso forma sotto gli occhi della mente un’insalata russa che va caramellata su due lati con lo zucchero, come sotto il vetro di una teca; il foie gras farcito di balsamico tradizionale stravecchio e pralinato su uno stecco. Sono entrati nella lingua l’insalata che è di Crippa, il gargouillou di Michel Bras.
A Roma, la Carbonara è della Pergola ma è anche quella di De Maio e di Roscioli, è quella di Dandini ma (al netto dei fagottelli di Heinz Beck, anche questi ricevuti in dote dai viaggi degli affetti, in un tempo così lontano che è ormai quasi sogno) negli ultimi anni è stata probabilmente, anzi sicuramente, soprattutto quella di Pipero.
Il ristorante di Alessandro Pipero, dopo la partenza dello chef Luciano Monosilio (alla guida della cucina per quasi dieci anni e improvviso protagonista di un cambio di rotta risalente allo scorso Giugno) la carbonara dal menu l’aveva tolta: ma settimana scorsa ha dovuto reinserirla in carta, tra le lamentele dei clienti più assidui – questo ho sentito, da fan di cucina. E in quanto fan modesto, io purtroppo quella carbonara mitologica, nei giorni e nel posto del suo gran fulgore, non l’ho mai provata.
La “separazione” tra Monosilio e Pipero, golden couple della ristorazione romana, ha fatto clamore nei giorni della sua emersione scatenando una lunga serie di articoli al riguardo sulle testate specializzate e rumori incuriositi nella grapevine gastrocosa capitolina: si è parlato, per le cause, di naturale divergenza di vedute; sfociata nell’inaugurazione da parte dello chef del suo progetto solista – “LUCIANO – Cucina Italiana” – inaugurato in Piazza di Pompeo, pochi passi da Campo de’ Fiori, nel Settembre 2018.
In veste non di curioso, ma per una volta di amatore semi-professionista, lo sono andato a provare.
Il ristorante
Il ristorante è situato nel cuore della Roma più autentica e turistica, affacciato placidamente su un déhors disteso in una delle piazzette del rione Parione. Da una grande insegna in metallo brunito risaltano i cutouts luminosi delle lettere, del nome: scandiscono LUCIANO, nome spendibile, che in tutto il mondo fa risuonare nella mente gli O Sole Mio più lirici.
Entro: maioliche verdi, acciaio brunito e arredamento pop spinto con richiami al folklore dell’Italia vintage – instagrammabile con qualche scivolone kitsch, come ad esempio il “cielo” di lucine di Natale che scoprirò ricoprire l’interezza del soffitto della sala al piano inferiore – contornano l’area pastificio subito alla destra della porta d’ingresso, giustamente inattiva al momento della mia visita, una Domenica sera.
Sui tavoli sguarniti fanno mostra di sé delle scatole in latta arricchite da un LUCIANO in rilievo – che contengono forchetta, coltello e tovagliolo in TNT – il coperto.
Il personale di sala si muove veloce in divisa, auricolare-munito, attraverso i – calcolo, ad occhio – più o meno duecento coperti.
La carta è un foglio A3 plastificato dal design pulito, e mentre siedo e scelgo cosa mangiare, l’atmosfera dominata da una gigantografia optic art con ritratti in bianco e nero dello Chef a figura intera si compone nella mente: sembra tutto quick and chic, internazionale nel senso meno lusinghiero del termine, episodio zero di una catena di ristoranti à la Wolfgang Puck, alla Jamie Oliver’s Italian.
Avevo letto peraltro della presenza in carta di una selezione di pizze nate dalla collaborazione con Elio Santosuosso, ma delle stesse a cinque mesi dall’avvio del locale non c’è più traccia sul menu, né in sala niente che possa far pensare ad attività di impasto e infornatura.
Ma io sono qui per la Carbonara ed altre cose di contorno.
Ordino.
I piatti
L’antipasto scelto è goloso, sulla carta, un carpaccio d’agnello con crema di cavolfiore romanesco, pecorino, alga e mosto cotto (15€); che mi solletica sin dalla descrizione l’animo più primitivista.
Il risultato purtroppo invece lo delude, mancando totalmente di una qualsiasi spinta “selvatica” – che sarebbe legittimo aspettarsi da un agnello crudo – e rivelando una carne addomesticata, prossima all’insapore. Le cimette bianchite di cavolfiore sono croccanti ma giallastre e talvolta pregne d’acqua oltre che fredde di frigo, la spuma pastosa di romanesco, miscelata alle consistenze delle puntine integre, sbilancia sul dolce fino a ricordare un’insalata russa senza sottaceti; le cialde di riso all’alga nori mancano di fragranza, sono spesse, infastidiscono il morso; il pecorino non è pervenuto.
Ci sono dei fiori e delle erbe da pascolo sul piatto, che non aggiungono granché ma incuriosiscono: chiedo che fiori siano le campanelle gialle, mi viene risposto che sono fiori Eboli – e pur capendo che l’interlocutore intenda Eduli, e penso che mi auguro bene lo siano, giacché stanno sul piatto e li sto mangiando – mi scopro a chiedermi se intendesse forse che proprio su quei fiori si fermò il Cristo di Carlo Levi.
Intanto, mentre una ragazza gentile mi chiede se desideri un sacchetto di pane di Roscioli per accompagnare il pasto, a 2,5€ al pezzo, il sacchetto del pane arriva da solo. Me lo troverò sul conto.
La carbonara arriva in gran pompa, come richiesto dalla reputazione e dai 15€ di esborso. Il grande piatto concavo è ornato sul bordo da una molletta che regge una cartolina; che riporta su un verso ancora una volta il trademark LUCIANO e sul retro la ricetta del piatto maestro. Mentre aspettavo ho visto uscire molti primi diretti verso i tavoli attorno, e sono sicuro che tutti o quasi fossero di Carbonara. Leggo la cartolina e poi la poso, affondo gli occhi sul piatto. Una cascata di riccioli di pecorino incornicia un volto angelico di spaghetti Felicetti tinti di un bel giallo oro, un cortocircuito di Shirley Temple. Parallelepipedi di guanciale lunghi un paio di centimetri e spessi uno sono raccolti al centro del nido di pasta, ben ammantati dalla crema d’uovo.
L’antipasto non buono non mi ha scoraggiato: sono di fronte al Mito, il Mito del fan che ha sempre sentito e mai assaggiato, il Mito imbattibile e sacro e perfetto, quello a lungo desiderato che si confronta e apre rivelazioni celestiali, e rivoluziona paradigmi: sono di fronte alla locuzione, sto finalmente per assaggiare la carbonara di Monosilio.
Impugno la forchetta, la presa particolarmente equilibrata e quasi ergonomica, pare studiata appositamente per avvolgerci le paste lunghe, gira semiautomatica tra le dita: sollevo il ricciolo di spaghetti, infilzo un cubo di guanciale, annuso, mangio.
La pasta è cotta, un lungo minuto in più, o due, di quello che si considererebbe “al dente”: cedevole al morso senza alcuna resistenza. Non è troppo in assoluto, ma è troppo per una carbonara. La crema è viscosa e aderisce con la giusta consistenza. Il guanciale crocca e sdilinquisce in un bel dilagare di succhi: il taglio non è regolarissimo, però, i cubi più piccoli si sono bruciati, così come il grasso che lascia sul fondo della bocca uno strascico amaro (e non solo al palato). Ho avuto flashback di carbonare mangiate a Parigi, a Berlino, in Irlanda: e non è un segno buono, mi rendo conto. Ripasso la ricetta sulla cartolina per verificare se per qualche vezzo ci sia della panna, ma non ne vedo traccia. E non dico che da Luciano la usino, ma senz’altro il boccone transita sulla lingua lasciando impressione di un’eccessiva, lattiginosa, dolcezza: forse per via di un eccesso di Grana Padano nella crema, che oscura il pecorino e la sua spinta sapida favorendo una morbidezza poco ortodossa.
Sono spiazzato e ferito. Mi chiedo se questi piatti siano stati rimaneggiati dalle precedenti versioni stellate per incontrare la clientela di turisti che gira sotto la statua di Giordano Bruno e il loro gusto edulcorato. Mi chiedo se forse la scarsa potenza dei piatti sia solo una questione di “mano” e difetti d’esecuzione materiale, giacché non mi pare che durante la mia visita lo chef sia in zona. Mi chiedo se sia presuntuoso proporre una cucina così scombinata a prezzi tanto alti, quando soprattutto sui cavalli di battaglia della romanità perfino in pieno centro è possibile avere di molto meglio a molto meno (Roscioli a poche centinaia di metri, per dirne uno).
Mi chiedo infine se invece il branding esasperato, i prezzi da Times Square e questa rilettura della tradizione, o dell’immaginifica cucina italiana vista con gli occhi del mondo foresto, non siano prove generali per lanciare seriamente una catena internazionale di LUCIANOs. Mi viene in mente di aver letto che Monosilio dovesse aprire per conto di Trigo, gruppo proprietario di Domino’s Pizza in America Latina, “Capolavoro”, un ristorante italiano a Rio de Janeiro. Mi vengono in mente tante cose, tante domande, altrettante illazioni, nessuna risposta – nel piatto quello che resta di un mito distrutto al suo primo incontro con la realtà.
Il secondo piatto è un baccalà cotto in CBT, con patate al burro e una mousse di ‘nduja alle cipolle. Non è un piatto cattivo, è un piatto anonimo che diventa cattivo in relazione alle aspettative, alla richiesta, al contesto. Il pesce risulta abbastanza tenace e saporito. Le patate al burro, sono patate al burro. La spuma di ‘nduja è una chiazza arancio fluorescente e non aggiunge niente al complesso, se non un deciso ed acceso piccante – niente aroma, niente grassezza – niente fragranza di cipolla rosolata, che avrebbe quantomeno contribuito al totale con un kick per risollevare l’insieme. Emblematicamente, sovrasta il tutto uno spruzzo di prezzemolo battuto ed esausto, che annegato nella pozza catarifrangente non ci prova neanche; a dare un alito di freschezza.
Mi arrendo e salto il dolce. La spesa, per i tre piatti, acqua e un calice di vino, è di oltre 60€; alla luce di quel che si è mangiato ampiamente immeritati. E se da semi-professionista avrei potuto tacere dell’esperienza negativa, o peggio aggiungermi al “circolo degli amici” della critica gastronomica e ai loro peana di elogio, il fan che è in me, nel quale arde un fuoco di passione per il buon mangiare mai domato dal tedio e dagli interessi professionali, non si è potuto risparmiare.
Informazioni
Luciano – Cucina Italiana
Indirizzo: Piazza del Teatro di Pompeo, 18
Sito Web: http://lucianocucinaitaliana.com/
Orari di apertura: tutti i giorni 12-15 e 19-23
Tipo di cucina: pseudo-alta
Ambiente: markettaro
Servizio: da dimenticare