Fino a che punto può arrivare il marketing gastronomico? Com’è possibile che uno degli ingredienti più utilizzati nella cucina contemporanea sia lo storytelling, senza il quale ogni piatto pare perdere sapore e identità (golose), e aggiunto quindi come il buon vecchio dado? Dilemmi oziosi, per carità, ma stimolati da un esempio curioso, ultimo di una lunga serie. Per esempio da qualche tempo nell’orto di Venissa, ristorante stellato nell’isola di Mazzorbo, nella laguna di Venezia, è comparso uno stranissimo frutto, dalla storia peculiare, che si intreccia con quella della Serenissima e dei traffici commerciali con l’Oriente. Il nome botanico è Angryolphio lanoso viridis, per gli amici semplicemente angriolo.
Il nome botanico è Angryolphio lanoso viridis, per gli amici semplicemente angriolo. Leggenda narra che “Il 25 febbraio del 1485 una galea veneziana naufragò sulle coste della Dalmazia dopo una terribile tempesta. Alla conta dei danni e dei superstiti, l’equipaggio si accorse che l’albero maestro della nave era irrimediabilmente compromesso. All’epoca le coste dalmate erano quasi inesplorate e tra le loro mille insenature nasceva una rigogliosa antica foresta. Fu così facile trovare un largo tronco da utilizzare al posto di quello danneggiato. Il capitano scelse un albero molto particolare, appuntito come un cipresso, ma dalle foglie tonde, di un verde lucido. Ma il legno, si sa marcisce facilmente se non viene trattato a modo. Il colpo di genio venne a Federico d’Angriò, professione mozzo di vedetta. Egli pensò semplicemente di trapiantare l’albero sulla nave, con le radice ben ancorate nella stiva riempita opportunamente di terra. Issate le vele sui rami più larghi la spedizione ripartì alla volta di Cipro. A marzo inoltrato, volgeva al termine la corsa della galera, che ormeggiò nel porto di Nicosia per rimanere in rada fino ad Agosto. In questo periodo, grazie al clima caldo l albero della nave poté attecchire bene e addirittura fiorire, sempre saldo al centro del vascello. Sul finire di agosto, caricata la nave di vino e olio, la prua fu messa verso rotta di casa. Solo una volta giunti a Chioggia, il giovane mozzo, che solitamente stava sul pennone controvelaccio, si accorse che dai rami dell’albero maestro pendevano strani frutti oblunghi, di un rosso acceso, fino ad allora nascosti dal fogliame verde che nel frattempo era ricresciuto sui rami. L’albero rimasto in vita grazie alla sua trovata, mentre il vascello era in rada a Cipro, era stato impollinato da chissà quale specie di albero locale, ed ora fruttificava frutti mai visti, dolci acidi e salati allo stesso tempo, di forma contorta ed allungata”.
Il racconto è avvincente e parla di contaminazioni, ibridazioni, delizie della botanica. A cercare notizie più dettagliate sull’angriolo, tuttavia, non si trova nulla. Com’è possibile che non se ne trovi traccia in qualche volume di storia della gastronomia o in qualche testo di botanica? Com’è che nessuno ha mai sentito parlare di Federico d’Angriò, che dalle calli veneziane ad un certo punto della vita decise di “imbarcarsi su un cargo battente bandiera liberiana” con l’obiettivo di guadagnare qualche soldo, vedere il mondo e fare fortuna? La risposta è facilmente intuibile.
Sia come sia, l’angriolo, forma allungata e storta, colore verde quando è acerbo, tendente al giallo-rosso man mano che la maturazione avanza – come ha raccontato Chiara Pavan, chef di Venissa assieme al compagno Francesco Brutto – nel giro di pochi mesi è stato trasformato in dessert, ha guadagnato articoli di testate del settore e immancabili hashtag. Dimenticato per anni, insomma, grazie alla scoperta degli chef, ha ritrovato il suo giusto posto nella storia.
Non abbiamo motivi per attaccare il povero angriolo: il frutto verde e bitorzoluto è semplicemente un esempio per raccontare una deriva narrativa in cucina, che sarebbe perfino ironica e divertente se non finisse per trasformarsi nell’ossessione per la ricerca del tipico, del tradizionale, della storia, delle radici antiche. Da un lato è vero che, per citare Nicola Perullo (Il gusto come esperienza) “il gusto può essere direttamente stimolato da istanze culturali, come conoscenze storiche ed elementi extrasensoriali, le quali possono condizionare il momento della percezione (…) Un’informazione extrasensoriale che non si riferisce alle caratteristiche intrinseche dell’alimento, e che mira piuttosto a suscitare interesse ed attrazione, creando una specie di aura – di unicità, di irripetibilità – attorno all’oggetto, è quanto propongono molte strategie di marketing”.
Dall’altro però, non si capisce perché si assista ad un accaparramento del tipico fino al punto di dare vita a storie e narrazioni. Se persino ad una banana comprata al supermercato chiediamo la carta di identità e se pretendiamo di conoscere il nome della mucca trasformata in bistecca, com’è possibile che, in un atteggiamento quasi schizofrenico, ci si lasci cullare da miti e leggende creati attorno ad un ingrediente e che lo collocano – manco a dirlo – in una dimensione antica, senza opporre un atteggiamento almeno dubitativo?
Sappiamo bene che il godimento che ricaviamo dall’andare al ristorante non si risolve solo nel cibo, ma implica anche l’esperienza complessiva. Ma non si capisce un’ossessione per storia e legami con il passato che conducono, per citare Hobsbawm, all’”invenzione della tradizione” e, come descrive bene Luca Cesari (autore di Dissapore tra le altre cose) nel suo “Storia della pasta in dieci piatti”, a decretare per esempio come “storica” la ricetta della carbonara – con commenti sdegnati dei gastropuristi nel caso di pancetta al posto di guanciale – quando fonti attendibili non la collocano più indietro degli anni ’50.
Perché creare narrazioni, mostrando così un volto statico della cucina, quando la storia della gastronomia insegna dinamismo e contaminazioni? Perché non mostrare invece una bravura ed una tecnica, in grado di vivere indipendentemente dal loro legame con il passato? Perché non raccontare semplicemente ciò che si fa, anche nel caso di innovazione spinta e uso di stampanti 3D? Siamo davvero così convinti che i clienti abbiano bisogno di storie di radici secolari per essere disposti a spendere tanto per un piatto? E perché, infine, di fronte all’invenzione o alla scoperta di qualcosa di nuovo bisogna giustificare la scoperta rivestendola con drappeggi storici? Al di là del divertimento a tavola, ovviamente consentito e benvenuto, forse c’è da ragionare sulle sue derive e su come la storia finisca in alcuni casi, per essere vittima di un marketing troppo spinto.
Per la cronaca. Angriolo è un termine inventato da Francesco Brutto e indica un ibrido tra anguria e cetriolo, nato spontaneamente nell’orto di Venissa. Per capire se un frutto del genere possa nascere abbiamo chiesto a Maurizio Gily, agronomo e docente all’università di Scienze Gastronomiche, qualche delucidazione in merito: la conclusione è che non è detto che le due specie siano interfertili e non è detto che un frutto, anche derivante da ibridazione, sia in grado di riprodursi. Ancora più nel dettaglio, esperti in fatto di cucurbitacee ci hanno spiegato che sia anguria che cetriolo sono cucurbitacee, ma appartenenti a genere e specie differenti. Il primo è genere Citrullus e specie lanatus, mentre il secondo è Cucumis sativus. La probabilità di un ibrido spontaneo è remotissima. Ci sono però all’interno della stessa famiglia prodotti dalle qualità organolettiche che riportano a più specie.