L’insostenibile lato oscuro del ristorante più sostenibile del mondo

La disarmante inchiesta di Eater sul Blue Hill at the Stone Barns, il ristorante conosciuto come emblema di etica e sostenibilità.

L’insostenibile lato oscuro del ristorante più sostenibile del mondo

Predicare bene e razzolare male: sarebbe facile liquidarla così, con una frase fatta. Oppure, la differenza tra idea e azione, come diceva il gorilla di De André. Il fatto è che qui siamo di fronte al ristorante più etico e sostenibile del mondo: quello che ha fatto del collegamento diretto tra cucina e agricoltura la propria filosofia e la propria pratica; quello che vuole rivoluzionare il modo di mangiare e di pensare il cibo; quello in cui una cena assomiglia più a una lezione itinerante in una fattoria didattica; quello che parla di rispetto degli animali e dell’ambiente, di riciclo e di riuso e di zero waste. sì, stiamo parlando di Blue Hill at the Stone Barns, del venerato chef newyorkese Dan Barber, e del collegato Stone Barns Center for Food & Agriculture, un vero e proprio progetto trasversale e utopico.

Blue Hill at the Stone Barns

Il tempio dell’etico e del sostenibile che però, visto dall’interno, si rivela il suo opposto. Un inferno per chi ci lavora, un ambiente tossico, maschilista e prevaricatore, dove le umiliazioni e lo sfruttamento sono all’ordine del giorno; un inganno al limite della frode per il cliente, che intortato da tutto lo storytelling spesso si vede rifilare cibi e preparazioni che non corrispondono affatto all’immagine costruita e propalata. E allora dobbiamo chiederci: è giusto giudicare con un metro severo, più severo di quello che usiamo nella norma, chi dell’etica e dell’ideale ha fatto la propria bandiera? È giusto pretendere un comportamento moralmente superiore alla media da chi superiore alla media si sente e dice di essere? 

Sì: non ha dubbi il sito Eater, che ha pubblicato questa monumentale inchiesta firmata da Meghan McCarron. Tre longform dedicati ognuno a una faccia del problema: i dipendenti, gli agricoltori, i clienti. Un’inchiesta che è il risultato di 19 mesi di lavoro, l’ascolto di più di 70 fonti e lo studio di centinaia di pagine di documenti e mail. E sì, le cose in grande, d’altra parte una roba del genere o la fai così o non la fai.

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Dan Barber, il guru di questa rivoluzione, è davvero un genio della cucina, e una persona con una visione unica sul futuro del cibo. E però, è anche uno chef di formazione tradizionale, che ha fatto la gavetta nei ristoranti di scuola francese, quelli organizzati secondo il rigido modello gerarchico della brigata, e improntati alla più crudele e militare disciplina. Barber lo ammette, e ammette anche di avere un brutto carattere, “di cui non andare orgoglioso”. Questo comporta due conseguenze però: uno che è impossibile lavorare a stretto contatto con lui; due che di questo nervosismo e nonnismo ne risente tutto l’ambiente, un ambiente dove ogni singolo dipendente viene bullizzato dai superiori, e si rifà sui sottoposti.

Almeno questo è quanto emerge dai racconti di ex dipendenti, che parlano di un’atmosfera tesissima, dove si subiscono continue sfuriate e umiliazioni pubbliche per gli errori più infimi, o a volte anche senza nessun motivo. Per non parlare delle accuse di violenza sessuale che un dipendente ha fatto nei confronti di un superiore, e che sono state minimizzate e insabbiate dallo staff di Blue Hill: alla fine l’unico provvedimento che hanno preso, dopo essersi assicurati che il fatto non venisse denunciato alla polizia promettendo un’accurata indagine interna, è stato quello di separare i due facendoli lavorare in ambienti diversi (cosa che tra l’altro non è neanche stata sempre rispettata).

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Poi ci sono le mezze frodi: per esempio quella dell’uovo nel compost. Uno dei vanti di Blue Hill è quello del sito di compostaggio, dove vengono stoccati i rifiuti organici che diventano concime che viene usato nella fattoria che produce il cibo per il ristorante che al mercato mio padre comprò. Un classico esempio virtuoso di economia circolare, scherzi a parte. Ma c’è di più, perché il compost fermentando produce calore, e allora perché non sfruttare quel calore? Detto fatto, Dan Barber ha creato questo forno per cottura a bassa temperatura, alimentato col calore del compost: una roba da far esplodere il cervello, che infatti ha fatto il giro del mondo in vari video virali. Beh, peccato che la storia che raccontano gli ex aiuto cuochi sia un’altra: le uova per esempio venivano cotte nel forno normale, e poi messe di nascosto nel forno del compost, dal quale venivano prelevate davanti agli occhi dei clienti stupefatti. 

E tante altre cosette così, tipo le meravigliose zucche dolci, le cui varietà sono stare create dallo stesso Barber con anni di studi e incroci: talmente saporite di per sé che non hanno bisogno di essere condite. Questo è quello che diceva una dipendente mentre le serviva ai clienti, subito dopo averle condite lei stessa.

Inoltre, c’è quella che Eater definisce “cattiva gestione presso la fattoria non profit forse più influente d’America”, lo Stone Barns Center for Food & Agriculture. “Ex apprendisti e dipendenti affermano di aver affrontato condizioni di lavoro che consideravano non sicure, mentre numerosi ex dipendenti dell’allevamento descrivono quella che considerano una sofferenza animale non necessaria all’interno del sistema olistico di gestione del territorio di Stone Barns. Diverse ex dipendenti donne affermano anche che la leadership quasi tutta maschile della fattoria ha creato un ambiente sessista, culminato nel 2019 con una serie di lettere alla leadership di Stone Barns e con le dimissioni di due dipendenti in segno di protesta”.

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Da ultimo, non ci resta che concludere con un’annotazione locale e intrisa di sano provincialismo. Perché ancora una volta dobbiamo prendere atto di una distanza – tra noi e l’America – che non si misura in migliaia di chilometri, ma in anni luce. Distanza nella cultura d’impresa e del lavoro all’interno del settore ristorazione: perché se oltreoceano fanno notizia comportamenti e fatti come quelli appena descritti, che pur essendo da denunciare e combattere certo vanno annoverati nella categoria dei peccati veniali, da noi cose molto più gravi non solo non sono oggetto di inchieste, ma non finiscono neanche nelle brevi di cronaca. Qualsiasi sospetto o mezza frase viene immediatamente negata, coperta, archiviata con un’alzata di spalle.

Distanza poi, e qui scatta il mea culpa, anche nel settore del giornalismo: perché se in Usa una reporter può permettersi di lavorare quasi due anni per tirare fuori un risultato del genere, qui il massimo del cinebrivido che siamo in grado di produrre è una serie di pezzi fotocopia sui ristoranti che non trovano camerieri per colpa del reddito di cittadinanza. Alé.