Ogni volta che spunta un nuovo ristorante vegano, soprattutto se il manto dell’hype gli svolazza intorno quasi ancora prima che apra, come nel caso di Linfa in zona via Savona a Milano, non ci si può davvero limitare al cibo puro e semplice. Se sia buono o meno, come una circoscritta questione di fatto.
O almeno io non posso fare a meno di allargare la riflessione sul momentum che vive il veganesimo in tutto l’Occidente e su chi, tra chef, attivisti, pensatori e artigiani, prova a definire un nuovo canone alimentare che secondo molti rappresenta il necessario futuro. Un lavoro perimetrale di sintesi di cui alcune direttive sono già identificabili. In questi primi passi della Cucina Vegetale Ben Temperata (parafrasando con un po’ di veniale pindarismo il codificatore originario della musica occidentale Bach), c’è chi punta agli alter-ego animal-free dei prodotti animali, derivanti dalla frenesia tecnologica contemporanea. Polli e burger senza né polli né burger. C’è chi, dispiegando arsenali sofisticati di tecnica e immaginazione, lavora sulle verdure finendo per stravolgerne il senso, cercando in esse di ricreare con mal posta saudade i gusti e le caratteristiche dei prodotti animali. E beccandosi anche eccellenti stroncature come per il tristellato Eleven Madison da parte del New York Times. C’è poi chi, e non da ieri, come Noma e la compagnia della nuova cucina nordica, riesce ad esaltare la pura essenza dei vegetali con artifici tanto complessi da risultare naturali e non invadenti.
Da Linfa prevale una visione intermedia, lontana da peripezie estreme, dentro la quale radici, frutti e altre prelibatezze verdi di stagione trovano consona elevazione, ma dove non si disdegna anche l’impiego di sostituti vegetali e trompe l’oeil vari a trama tecnologica.
Gli gnocchi quindi sono un piatto orgogliosamente, trionfalmente vegetale. La prevedibilità dell’impasto alla zucca è totalmente scalzata dalla girandola brillante e caleidoscopica di sapori che li condisce: crema di tartufo, mirtilli disidratati, lamelle di cavolo romanesco crudo. Sull’altra sponda, quella tecnologica, trovano rappresentanza il “kebab” e il curry di “pollo”, entrambi provenienti da un produttore industriale. Il curry è lodevole con il suo mix di sapori potenti e indistinguibili; ad esso fa difetto però una ciotolina di riso bianco d’accompagno, che ne spezzerebbe la naturale ricchezza e vischiosità.
Ho l’impressione che anche il tempeh (un cugino del tofu, ma a trama più sgranata) venga da produzione esterna, alleggerendo così ulteriormente le fatiche in cucina. Peccato perchè si può fare in casa, ma è una pecca veniale quando il piatto di cui è protagonista è delizioso e molto sostanzioso, un vero secondo di peso. Marinato agli agrumi, in una composizione campestre e vivace di verdure e radici di stagione in diverse consistenze, puntellata dallo scoppiettio delle lenticchie soffiate. Molto bene anche la pasta: nelle mezze maniche, il pesto di cime di rapa è una base erbacea e amarognola su cui compaiono a intermittenza la dolcezza della ricotta di mandorle e i filamenti agrumati della scorza di limone candita.
Oltre la nobile intenzione vegana, è chiaro che il luogo è accuratamente progettato con un occhio ammiccante alla Milano modaiola e a la page, avida di novità. La prevalente e stanca estetica dello scrostato, dei mattoni a vista, del grezzo e del vintage, che è il finto per eccellenza anche quando recupera finiture autentiche, poiché finta e riesumatoria nelle intenzioni, qui lascia il passo – purtroppo – a qualcosa di molto diverso ma di altrettanto conformista. Tra poltroncine filate in color oro e dal velluto pastello o giallo sole, specchi, un’atmosfera carica di rosa cipria e altri toni zuccherosi, sembra lo showroom di Westwing.
Linfa è letteralmente preso d’assalto in questi suoi primi mesi e questo parzialmente giustifica alcune incongruenze nel servizio, prontamente però neutralizzate da un calice offerto al banco del bar prima che il tavolo fosse pronto. Peculiarmente, il menu degustazione, tra gateau di patate e vellutata di porri è meno originale della scelta alla carta, dove compare ad esempio il sushi di jackfruit, un frutto tropicale raro a trovarsi da noi la cui polpa ha la consistenza di carne o pesce sfilacciati. È un piatto però poco riuscito, nonostante le belle guarnizioni come la maionese allo zenzero e la polvere di cappero. Perché quando al sushi manca il riso fatto a dovere, manca tutto. La carta dei vini è convenzionale e dai ricarichi molto importanti, ma l’acqua filtrata della casa a un euro è un apprezzabile elemento di onestà.
Se dunque da Linfa intelligentemente si risparmiano virtuosismi accidentati e pericolosi, come la canoa di melanzane di Eleven Madison – piaga su cui gira il coltello di Pete Wells del New York Times – io avrei forse preferito un po’ meno bustine aperte e una concentrazione esclusiva su preparazioni fatte in casa, come ad esempio è il caso nell’altro esponente di punta della scena vegana milanese, Altatto. Rimane comunque un arricchimento più che valido alla ristorazione cittadina.
Opinione
Si parte con un vantaggio precostituito: quello di diffondere e arricchire la ristorazione vegetale di qualità, che di per sé è una missione lodevole. Linfa è complessivamente all’altezza di questa missione, pur con alcuni limiti. La cucina è fantasiosa ed equilibrata, buona espressione del mondo vegetale senza virtuosismi esagerati, sebbene non tutti i piatti riescano allo stesso modo, con l’ulteriore piccola macchia di fare uso frequente di preparazioni vegetali industriali. Il design e l’ambiente sono ricercati ma rispondenti a un certo conformismo modaiolo.
PRO
- Contributo benefico alla scena veg e alle potenzialità di questa anche nella ristorazione ambiziosa.
- Menu fantasioso ed equilibrato.
CONTRO
- Uso significativo di prodotti confezionati dell’industria vegana.
- Carta dei vini migliorabile.
- Ambiente un po’ stucchevole e modaiolo.