Chi l’ha detto che i critici gastronomici non servono a nulla? O per lo meno, che una recensione, per quanto spigolosa (“Licata è una specie di ernia in fondo alla Sicilia. Se non fosse per La Madia, il ristorante di Pino Cuttaia“), dove si scrive apertamente ciò che tutti pensano ma omettono per timore di non compiacere lo chef, debba essere per forza deleteria per il recensito?
Accade, purtroppo raramente, che qualche persona di buon senso faccia tesoro di una critica che coglie nel segno, se ne appropri (magari perché la condivide) e colga l’occasione per raccogliere la sfida a lungo rinviata. Può accadere, in altre parole, che il re si scopra nudo, e decida allora di vestirsi, o meglio, di cambiare vestito.
E’ il caso di Pino Cuttaia, che ha ristrutturato La Madia “per colpa di Dissapore”.
O meglio, anche per una recensione pubblicata giusto un anno fa, estasiata dalla cucina “misuratamente diversa, piena di intuizioni, calore, saggezza e simpatia” dello chef siciliano, ma ruvida nei confronti degli interni: ‘una camerata da caserma, che a stento potrebbe accogliere una trattoria, con tinte allucinate su pareti e muretti a imbruttirne l’aspetto, o le decorazioni siculo trash’.
Alla fine l’architetto, di cui Dissapore aveva implorato l’intervento, è arrivato sul serio. Ragione per cui siamo tornati a La Madia cercando di capire da vicino com’è cambiato.
LA NUOVA MADIA
Il benvenuto è affidato al consueto corridoio, però oggi vivacizzato dal legno di rovere chiaro, a terra e nella parete di destra.
Un percorso abbastanza lungo da consentire agli avventori di dimenticare il viaggio comunque estenuante che li ha condotti a Licata.
Nella sala il cambiamento lascia di sasso: nessuna traccia delle famose “tinte allucinate su pareti e muretti“, e tantomeno delle “decorazioni siculo trash“.
Non sembra nemmeno di essere nella stessa sala.
Tavoli eleganti ricoperti da lunghe tovaglie bianche, poltrone imbottite e rivestite di pelle scura, un intervento che con il minimo quantitativo di demolizioni ha ottenuto una vera metamorfosi. La distribuzione razionale degli spazi, il cielo stellato che illumina l’ambiente e il sottofondo di musica classica concorrono a disegnare un’atmosfera signorile.
Il progetto, firmato da Architrend Studio e seguito da Gaetano Manganello e Carmelo Tumino, dedica alla Sicilia due soli spazi dalle linee squadrate, senza caricature.
Una grande foto di Davide Dutto (scelta perché, precisiamolo per i fan, è l’immagine del profilo WhatsApp di Cuttaia).
E un’ampia finestra, unico punto da cui arriva la luce naturale, che affaccia su un giardino arredato con piante di limoni e gerani dal disordine organizzato, voluto.
UN POSTO CHE NON FACCIA PENSARE
La prima impressione potrebbe deludere: Cuttaia si è fatto prendere la mano e ha spogliato l’ambiente razionalizzandolo fin troppo.
Ma progressivamente, mentre si alternano le portate, realizzi che la scena è quella giusta per lo chef, abbastanza neutra per trasferire l’attenzione sui piatti.
La nuova La Madia è studiata per non distrarre l’ospite, per farlo concentrare soltanto sul cibo, sui suoi piatti già rimodellati.
Soltanto in quelli adesso si trovano i suoi ricordi, i luoghi, le persone.
Eccolo il grande Pino Cuttaia che ci tratta come bambini da meravigliare con un continuo invito al gioco, con un menu bilanciato sempre meglio con le storie raccontate con grande tecnica e carisma naturale.
Come nel Sole vento, rivisitazione scomposta del pane cunzatu, cioè conciato con olio, salsa al profumo di concentrato, un’alice e un quarto di pane, il cosiddetto quartino acquistato giornalmente da chi viveva da solo.
Il desiderio della scarpetta, costante tentazione del pranzo, vince sul bon ton e qui è addirittura legittimata, anzi, imposta.
Nella Pizzaiola di merluzzo all’affumicatura di pigna o nel Raviolo di calamaro ripieno di tinnirume di cocuzza prevale la ricca cucina siciliana, i gusti diventano sapidi e diretti, anzi, se possibile esasperati.
A volte i profumi prevalgono sui sapori. Gli spaghetti sminuzzati, scelta prettamente indigena, sono protagonisti della Pasta e minestra di crostacei e granella di mandorle.
Come avviene nelle tavole domestiche dell’Isola un pentolino resta sul tavolo per il bis, in un adattamento “stellato” del classico pentolone.
Nel Quadro di alici, uno dei piatti più noti di Cuttaia, all’illusione si sostituisce l’ipnosi
Lo chef racconta, il cliente ascolta e ricorda.
Nella ricciola cotta in olio di cenere, presentata con accanto una ciotolina con i gusci di mandorla accesi (le scorce di mennula) per ricordare il profumo della carbonella, il ricordo va alle scampagnate, ai momenti spensierati, alle competizioni familiari sul modo migliore di accendere il ‘fucuni”.
Un paradiso di fuoco, invece per lo chef, il ricordo del profumo dei vestiti stirati della domenica.
La granita con brioscia col tuppo e la cassata di gelato vengono serviti nelle guantiere di porcellana bianca, le stesse, però in cartone, utilizzate nei bar di paese
Alla fine capisci ancora meglio il perché di un’ambientazione tanto minimalista. Per tutto il pranzo niente ha distratto l’attenzione dalla successione entusiasmante delle portate.
COSA CI FA QUI CUTTAIA?
E poi ci siamo ricordati di essere a Licata, paese il cui fascino continua a sfuggire ai non residenti.
Volenti o nolenti la solita domanda è tornata fuori. Cosa ci fa uno come Pino Cuttaia qui?
Alcune voci raccontavano di un locale in apertura a Taormina, progetto finito prima ancora di iniziare.
Fortunatamente. Per Licata, che senza Cuttaia sarebbe un posto ancora più insignificante, per Cuttaia che senza Licata, probabilmente, non sarebbe lo stesso.
Senza la sua strada e le granite del caffè Florio. Senza la possibilità di entrare e uscire dal locale, quasi fosse in una piacevole trappola, prendere una boccata d’aria e andare nella bottega di fronte.
“Uovo di seppia”, la sua bottega.
Dove anche voi dovete passare dopo aver cenato a La Madia.
Fuori sede, in trasferta, in contesti diversi, nelle varie cene a quattro mani, i piatti di Cuttaia rimangono un racconto fine a sé stesso, lui ne esce come una timida stella.
A Licata invece, incredibile a dirsi, è un’altra storia.
[CREDIT – FOTO ALFIO BONINA]